Suruwa, 18 anni: nel ghetto di San Ferdinando si muore ancora

Un’altra morte annunciata nella Piana di Gioia Tauro, dove si continuano a costruire tendopoli nonostante l’alto numero di case vuote presenti sul territorio. Il corpo carbonizzato di Suruwa segue a un anno di distanza quello di Becky Moses, costretta ad abbandonare Riace perché irregolare, e quello di Soumaila Sacko, ucciso nella stessa zona da un colpo di fucile. Una tragedia senza fine i cui mandati politici sono da trovare nel ministero dell’Interno e nella politica di apartheid razziale che costringe i migranti a vivere in condizioni di marginalità assoluta al limite dell’emergenza umanitaria. (articolo pubblicato anche su: Dinamopress: Suruwa, 18 anni: Nel ghetto di San Ferdinando si muore ancora)

È successo ancora. Sabato sera un altro incendio ha infiammato il ghetto di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Nel giro di pochi minuti hanno preso fuoco otto baracche. A scatenare il rogo, probabilmente è stato un braciere lasciato accesso per combattere una nottata troppo fredda. Quando le fiamme hanno smesso di bruciare le travi in legno a sostegno di questi ripari coperti da teloni in plastica, la cenere ha restituito un corpo senza vita. Giovane. Molto giovane. È Suruwa Jaithe, un ragazzo gambiano di appena 18 anni che viveva a Gioiosa Ionica, in uno Sprar gestito da Re.Co.Sol. (Rete dei Comuni Solidali). «Non sappiamo perché si trovasse lì», ha raccontato fra le lacrime il coordinatore del progetto Giovanni Manolo in un’intervista rilasciata al Corriere della Calabria. «Adesso dovrò chiamare una madre per dirle che suo figlio è morto bruciato».

Forse Suruwa era andato in baraccopoli per trascorrere il fine settimana con qualche amico. Qualunque sia la ragione che lo abbia portato a San Ferdinando, poco importa: ognuno ha il diritto di percorrere le proprie mappe della libertà. E Suruwa ci stava riuscendo. Qualche settimana fa, Jaithe aveva partecipato a un torneo di calcetto ed era stato anche premiato. Giovedì scorso, invece, il ragazzo si era sperimentato in un laboratorio teatrale, mentre a breve avrebbe iniziato un tirocinio formativo.

 

Era. Avrebbe. Aveva. È triste dover parlare al passato di una vita finita così presto. È triste raccontare, di nuovo, che nei ghetti si muore e le speranze riposte in uno zaino in cerca di una vita migliore finiscano in cenere.

 

Non è la prima volta che le fiamme distruggono la baraccopoli. Era già accaduto nel 2017: a luglio e a dicembre. Proprio l’incendio estivo era risultato abbastanza grave. Buona parte del ghetto abitato dai nigeriani era stato divorato dalle fiammate. Non c’erano stati morti ma l’odore acre sprigionato dalla legna dopo una breve pioggia si mescolava a un clima umido e a una temperatura percepita di oltre 40°, rendendo l’aria irrespirabile. Nemmeno un mese dopo, ad agosto, alcuni migranti venivano trasferiti in una nuova tendopoli montata a soli 500 metri dai vecchi casotti.
L’ultimo incendio, terribile, si è verificato all’inizio di quest’anno. A perdere la vita era stata una ragazza nigeriana di soli 26 anni, Becky Moses; finita in quell’inferno dopo che un diniego alla richiesta di asilo non le permetteva più di restare a Riace. Anche in quel caso, i rifugi bruciati erano stati sostituiti con una trentina di tende collocate in uno spiazzo fra il ghetto e la nuova tendopoli.

CASE, NON TENDONI

Ieri mattina, mentre un gruppo di migranti protestava in corteo chiedendo dignità e giustizia per la propria vita, il Prefetto di Reggio Calabria- Michele Di Bari- convocava un vertice con il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza presso il comune di San Ferdinando. Al termine della riunione, un comunicato stampa illustrava le solite soluzioni: sgombero del ghetto e allestimento di nuove tende in un’area limitrofa.
Occorre ricordare che l’attuale accampamento di baracche da sgomberare altro non è se non la tendopoli di Stato montata nel 2012. Non è difficile trovare qualche tenda sbiadita dal sole targata “Ministero dell’Interno” o “Protezione Civile”. Tendoni costati migliaia di euro (l’ultima ha un costo superiore alle 300 mila euro) e divenuti fatiscenti non appena i fondi destinati alla manutenzione del luogo sono finiti.

Eppure una soluzione più durevole, ma soprattutto umana, sarebbe possibile. Secondo quanto riportato in un report dell’Osservatorio sul disagio abitativo in Calabria, nella Regione fra le più povere di Italia è presente il 40% degli alloggi vuoti o scarsamente utilizzati. Un’analisi della Società dei Territorialisti, invece, stima che soltanto nella Piana di Gioia Tauro ci siano 35 mila case vuote.
E di nuovo le istituzioni si apprestano al montaggio dei campi come se ci fosse stato un terremoto?

 

Ma la storia si ripete e le condizioni di vita dei braccianti vengono equiparate a una “situazione straordinaria”. Un’emergenza. Ma così non è affatto.

Fin da prima della rivolta di Rosarno, tutti gli anni,  all’apertura della stagione delle arance, a raccogliere gli agrumi e le clementine marchiate IGP nelle campagne calabresi arrivano almeno 3.500 braccianti.

Una situazione ancor più sconcertante se pensiamo che buona parte dei migranti sia in possesso di un regolare permesso di soggiorno.
Lo scorso maggio, a conclusione del progetto “Terra Ingiusta” (che ripartirà per la Piana fra qualche settimana), Medu (Medici per i Diritti Umani) ha ben descritto chi vive negli insediamenti informali della Piana, che per il 92,65%  risulta regolarmente soggiornante. Di questi il 45% ha ottenuto un permesso umanitario; il 41,4% ha presentato domanda di asilo (il 33% è ricorrente in primo o secondo grado contro una decisione negativa della Commissione Territoriale) e il 7% è titolare di protezione internazionale (asilo o sussidiaria). Per quanto riguarda la questione lavorativa invece, meno di 3 persone su 10 è in possesso di un contratto di lavoro.

 

ESSERI UMANI, NON CLANDESTINI

Chi vive nel ghetto non è soltanto il bracciante impiegato nei lavori agricoli. Come la maggior parte degli insediamenti informali, la baraccopoli di San Ferdinando rappresenta un luogo di transito. Un posto in cui si giunge quando la vita non offre nessun altra alternativa. E sarà fra i posti che “grazie” al Decreto Sicurezza approvato dal governo giallo- verde, accoglierà un numero crescente di persone.

L’abolizione della protezione umanitaria prevista dalla nuova legge porterà almeno 40 mila “irregolari” a vivere in strada. E i primi effetti si stanno vedendo proprio sul territorio calabrese.

Lo svuotamento dei centri di accoglienza dai titolari del permesso umanitario -–oggi, dunque, “clandestini”– è già stato avviato a fine ottobre nella provincia di Vibo Valentia.

 

«Si mandano ragazzi di 18 anni in mezzo alla criminalità di strada o nelle tendopoli di Stato. In nome della sicurezza», commenta Sergio Pelaia nel suo articolo  su Il Corriere della Calabria.

 

E in nome della sicurezza è stato smantellato il modello Riace, cercando capi espiatori da trasformare in accuse rivolte al sindaco Mimmo Lucano; oggi “in esilio” dalla sua città. Settimana scorsa,  Il Fatto Quotidiano ha filmato la “disfatta di Riace”. Perché Riace adesso è questo: un paese fantasma, con le strade che al mattino non si riempiono più delle grida gioiose dei bambini e delle bambine mentre vanno a scuola. Asilo ed elementari hanno dovuto chiudere per un numero insufficiente di alunni e alunne. E 80 giovani hanno perso il lavoro. In Calabria, in cui la disoccupazione giovanile tocca il 55% e negli ultimi 15 anni ben 180 mila ragazzi e ragazze hanno abbandonato la propria terra per cercare altrove un futuro migliore (dati Demoskopika, novembre 2018).  Oggi il modello Riace, a cui guardava tutto il Mondo, non esiste più. Famiglie intere sono state mandate via. Una donna, madre di tre bambini, è stata allontanata dal paese che da otto anni era diventata la sua seconda casa. Si era poi ritrovata in un centro del vibonese a dover condividere una stanza con altre persone. Giustamente, non aveva la minima intenzione di subire quel trattamento ma se rifiuterà la nuova collocazione, non avrà diritto a ottenere i documenti necessari per restare in Italia.

E, sempre in Calabria, durante lo scorso fine settimana, dal Cara di Crotone sono state espulse 26 persone. Fra loro si trovavano una donna incinta e una pericolosa“irregolare” di appena sei mesi.

Quale sicurezza potrà mai portare un decreto improntato ad alimentare le marginalità sociali?

Quanti Suruwa, Becky e Sacko, invece morto per alcuni colpi di pistola mentre cercava delle lamiere con cui costruire la sua casa nel ghetto, dovremo ancora contare?

Quante volte dovremo narrare ancora, con le lacrime agli occhi, queste morti di Stato?

Perché la morte di Suruwa non deve essere vana. Non più. E non possiamo restare indifferenti davanti a disumani provvedimenti rivolti a chi viene considerato come una “vita di scarto”. Perché nessun essere umano è illegale. Nessun essere umano dovrebbe essere “un ultimo fra gli ultimi”.

La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli Invisibili

(Trovate questo articolo anche su:  https://www.dinamopress.it/news/la-pacchia-finita-sacko-29-anni-fucilato-nella-piana-degli-invisibili)

Due, tre, quattro colpi di arma da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre veloce fra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, c’è la vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando- in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.

Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È Sacko Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici (qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.

In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di 5 anni. «Soumaila Sacko era un militante dell’USB ed era un bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece, chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini. La pacchia di vivere in una baraccopoli».

Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano. Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma affondano le loro radici indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi- Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia” per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su tutto il territorio della Piana.

Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno Matteo Salvini dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81% Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo Stivale. Da Nord a Sud.

NELLA PIANA DEGLI INVISIBILI

Dopo la rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria, insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.

Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone, mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati intorno alle campagne di Taurianova e Gioia Tauro. Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos. Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e plastica prendano fuoco.

Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di Mimmo Lucano ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016 associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel comune di Rizziconi otto anni fa).

Non è sicuramente questo l’hotel a 5 stelle di cui parlano i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E, soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere sfruttati.

LA PACCHIA DI UN BRACCIANTE AFRICANO

Secondo l’ultimo rapporto di Medu (Medici per i Diritti Umani), associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”, la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece, il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).

Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23% delle persone intervistate da Medu. Il Commissario straordinario Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle braccia nere raccogliere i frutti dai rami.

A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’assistenza sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla complicata burocrazia italiana ed europea.

Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non smetteranno di ripetersi. Quanti Sacko e Becky dovremo ancora veder morire?

 

Rosarno, in fiamme il ghetto dei migranti (pubblicato su Il Manifesto)

Nella notte un incendio distrugge la baraccopoli nella piana di gioia tauro. Muore una ragazza di 26 anni originaria della Nigeria. Nel campo trovano un rifugio per dormire almeno 1000 persone. CHe non hanno piu’ nulla.

(Questo articolo è stato pubblicato oggi, 28 gennaio 2018, su Il Manifesto https://ilmanifesto.it/rosarno-in-fiamme-il-ghetto-dei-migranti/)

“A nessuno importa di noi. Io vorrei solo un lavoro e una casa. Vorrei vivere tranquillo.” Issa viene dal Ghana. Ha lo voce rotta dal pianto mentre le lacrime gli rigano il volto. Davanti a lui ci sono solo i resti della sua “casa”. “Non è possibile. Ci trattano come bestie!” ripete con rabbia Mamadou. “ Tutto questo non doveva accadere. E le istituzioni ci ignorano!”, borbotta ancora. A terra c’è solo un manto di cenere e l’atmosfera è stata avvolta da un odore acre. “Potevamo morire tutti”, bisbiglia un ragazzo senegalese di appena 20 anni.

Intorno alle due di stanotte, un incendio è divampato nel ghetto di San Ferdinando. Forse un braciere, lasciato accesso per combattere il freddo della notte, ha dato origine al rogo che in poche ore ha distrutto oltre la metà della baraccopoli. Non è la prima volta in cui le fiamme avvolgono le casupole costruite utilizzando materiale plastico e legname, ma stavolta ha perso la vita una ragazza nigeriana di soli 26 anni. Becky Moses, questo il suo nome, era arrivata qui solo un mese fa dopo essere uscita dal Progetto Sprar di Riace. “Cercheremo di darle una degna sepoltura” ha commentato il sindaco del paesino ionico Mimmo Lucano, giunto sul posto insieme a due amiche della giovane.

Foto: Avvenire. it

Otto anni sono ormai trascorsi dalla famosa giornata in cui migliaia di migranti riempivano le strade di Rosarno ribellandosi ai soprusi dei caporali. Eppure, a distanza di quasi dieci anni, nulla pare sia cambiato.
In questo periodo, circa duemila persone provenienti principalmente dall’Africa Centrale, raggiungono la Piana di Gioia Tauro per raccogliere arance e kiwi a solo venti euro al giorno. Oltre a una paga da fame, i migranti sono costretti a vivere in condizioni disumane. Chi non dorme nei casolari abbandonati nella campagne di Taurianova, un comune vicino a San Ferdinando e a Rosarno, trova rifugio nel ghetto o nella nuova tendopoli. Dopo mille promesse mai mantenute, nessuno pare voglia trovare una sistemazione reale alle migliaia di persone invece collocate secondo inutili “piani di emergenza”.
Il ghetto di San Ferdinando, fino a ieri, ha rappresentato una seconda casa per almeno mille braccianti. Un luogo infernale, dove non esistevano acqua potabile e servizi igienici. La corrente elettrica, ottenuta dai generatori, serviva a tenere accese anche le luci dei bazar. Insomma, la baraccopoli era diventata un piccolo borgo invisibile nell’indifferenza delle istituzioni. Oggi non resta che qualche baracca. La Protezione Civile ha montato qualche tenda dove stanotte dormirà chi ha visto distrutto il proprio rifugio. “E adesso come faremo?” si chiede Ahmed.
A 500 metri dalle baracche, c’è la nuova tendopoli in cui possono dormire solo 500 persone. La struttura è stata realizzata nel mese di agosto ed è dotata di un sistema di videosorveglianza. Gli ospiti, dopo essere stati identificati tramite impronte, possono accedervi solo tramite un badge. Nonostante sia in funzione da qualche mese, la struttura presenta già alcuni problemi: il servizio cucina, ad esempio, dopo la sostituzione dell’associazione inizialmente incaricata di gestire l’area, non è più entrata in funzione. “Qui fa freddo. La notte non riesco a dormire”, dice Alì. Nelle tende non esiste un impianto di riscaldamento e l’uso delle stufe fa saltare il quadro elettrico. Unica nota positiva è invece la scuola di italiano, che grazie all’accordo fra Sos Rosarno e il Comune di San Ferdinando, è aperta anche ai migranti che non risiedono all’interno del campo. Non è ovviamente una soluzione al problema abitativo che riguarda i braccianti, però. La tendopoli è stata infatti realizzata in seguito a un Protocollo Operativo firmato dalla Prefettura di Reggio Calabria con il Ministero degli Interni e altre associazioni. “Soluzione temporanea”, si legge sui documenti. Eppure, secondo un analisi elaborata dalla società dei territorialisti, solo nella Piana di Gioia Tauro ci sono almeno 35 mila appartamenti vuoti. “Sono anni che si spendono milioni do per montare tendopoli per poi abbandonarle a se stesse” si legge in un comunicato diffuso da Sos Rosarno. E conclude “eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa. Quanto tempo bisogna aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?”

#RottaBalcanica. A Sid, fra violenza e solidarietà.

La neve, una coperta sulle spalle, un paio di infradito ai piedi. Una fila lunga interminabile davanti a un banchetto sopra cui viene posato del cibo distribuito da qualche volontario. E’ Belgrado lo scorso anno, in una foto scattata nelle mille immagini viste in tutto il Mondo.

Poi le botte, i manganelli, le reti o gli scudi: in ogni modo, un altro muro alzato e il campo della capitale serba sgomberato. C’è chi urla di tornare a casa propria perchè in Europa non c’è posto. E intanto emana decreti di sicurezza stringendo nuovi accordi disumani. Fingendo indignazione. E c’è chi, invece, un disgustoso senso di disprezzo verso l’emarginazione lo prova sul serio. Togliere il sipario di odio calato troppo spesso su bambini, donne, uomini che oggi cercano riparo dalle bombe nel recinto della Fortezza Europa è un obbligo.

Fra il filo spinato e i ghetti, tra i muri da scavalcare e i boschi da attraversare, piantonati da guardie armate e dalla mano di una legge che schiaccia i più deboli, qualcuno sfida le barriere e porge una mano al prossimo.

Sul confine serbo- croato, a portare solidarietà, si trova anche Anna. Qualche mese dopo non si ferma e  parte alla volta di Ventimiglia, dove ci incontriamo e mi racconta la sua esperienza.
Poco più di vent’anni, dolce e determinata, Anna ha trascorso qualche mese a Sid; una cittadina serba di 15mila anime a qualche chilometro dalla Croazia.

SID è divenuta punto “di approdo” per centinaia di afghani, pakistani e nord- africani- soprattutto minori di età non accompagnati- provenienti da Belgrado, che vivono fra la “giungla”-una foresta- e una fabbrica dismessa. Le condizioni igienico- sanitarie sono pessime. Il cibo scarseggia.
“Se non fosse per piccole ong, associazioni umanitarie impegnate a distribuire kit sanitari, montare docce, offrire un pasto caldo, queste persone sarebbero completamente abbandonate a loro stesse”, dice Anna.

E racconta: “Era l’ora del chai -il tipico tè- e dei biscotti, quando un ragazzo mi chiede << Give more, please! Give more for the game!>> . “The game” sarebbe il tortuoso percorso che devono affrontare per raggiungere la frontiera croata. Tentano davvero la fortuna.” E aggiunge: “Affrontano il viaggio allacciati sotto un tir, saltando sui vagoni dei treni merci oppure, come spesso accade, camminano circa 10 giorni a piedi, per i boschi, fino a raggiungere Zagabria. Se non li prendono prima… in quel caso, beh, vengono rispediti indietro con abiti e scarpe consumati, oltre ad avere lividi ed escoriazioni dovute alle violenze della polizia. ”
Ma sulla pelle delle persone in fuga dalle frontiere non pende solo il manganello: qualcuno fa business. Ed è il caso degli smuggler, i trafficanti di esseri umani, che portano i migranti oltre la frontiera. O meglio, tentano di saltare la barriera. Se il risultato non sempre è garantito, il pagamento si: un passaggio costra tra le 150 e le 300 euro. Cifre altissime.

“Dopo il gelo dello scorso inverno, chi arriva qui attende un pasto per ore sotto il sole”, e prosegue “Dallo scorso giugno, la polizia porta avanti una serie di rastrellamenti e deportazioni forzate, come lo spostamento di molte persone nel campo profughi di Presevo. Vogliono assicurarsi che il confine sia libero e così li trascinano a 500 km lontani da Sid.” E allora ricomincia il giro.
I migranti non si arrendono e ritentano la fortuna.

TRAPPOLA SERBIA. Migliaia di persone si trovano rinchiuse in questo lembo di terra dove non vogliono restare. “Vorrebbero raggiungere le proprie famiglie in Francia, Germania. Non vogliono rimanere qui”, mi dice Anna. “Non è vita, questa. I campi profughi sono sovraffollati e i servizi igieni scarsi, scarsissimi”, e continua “Nemmeno il cibo è un granchè. Pensa, mi hanno raccontato di aver avuto wurstel di maiale a colazione… e loro sono mussulmani!” Un paio di volte a settimana, le associazioni delegate dell’UNHCR si recano a Sid invintando i migranti a entrare nel campo profughi, oppure li deportano in un altro spazio governativo; come il campo di Adasevci, pieno di famiglie.

Nel 2016, in Serbia ci sono state solo 574 richieste di asilo: ne sono state accolte solo 23. 19 persone hanno ottenuto una protezione sussidiaria e altre 40 sono state oggetto di diniego.

TRACCE DI SOLIDARIETA‘. Eppure, contro l’ostilità delle autorità serbe e il razzismo dilagante la solidarietà non si arresta. E così Lyuba, una signora di 70anni residente a Sid, armata di grembiule e mattarello, bussa alla porta di NoNameKitchen, una piccola Ong spagnola, e aiuta ragazze e ragazzi a preparare i pasti per altri esseri umani a cui la vita ha tolto tutto. O quasi.
“Le Ong, qui, operano ai limiti dell’illegalità. Ma quei volontari si impegnano ogni giorno a dimostrare che ancora una speranza di umanità c’è”, afferma Anna sorridendo.

E un sorriso, forse, è la nostra prima speranza per un futuro migliore.

 

 

Comunicato di Antenne Migranti, Asgi e SosBozen sulla morte del piccolo Adan

Pubblico il comunicato che mi è stato inviato dagli attiviste e dalle attiviste di Antenne Migranti, che svolgono un’importante attività di monitoraggio lungo la rotta del Brennero, sulla drammatica morte di Adan; un ragazzino di solo 13 anni  affetto da distrofia muscolare fuggito da Kirkuk nel 2015.

Ancora una volta, il sistema (dis)accoglienza presente in Italia mostra il proprio volto più disumano.

 

Cronaca di una morte annunciata
ovvero come la mancata accoglienza ha ucciso ancora.

La famiglia A.H., composta da genitori e 4 bambini di cui uno, Adan affetto da distrofia muscolare e costretto in sedia a rotelle, era scappata da Kirkuk ( città a circa 250 km da Baghdad) e arrivata in Svezia nel dicembre 2015.
Dopo quasi due anni di attesa, nel febbraio 2017, ha avuto l’intervista relativa alla propria richiesta di protezione internazionale. A settembre ha ricevuto la risposta, negativa.
In seguito al diniego ricevuto in Svezia in merito alla richiesta di protezione internazionale e alla minaccia di espulsione e rimpatrio coatto in Iraq se non avesse provveduto ad allontanarsi volontariamente dal paese, la famiglia ha deciso di lasciare la Svezia. E’ giunta a Bolzano, dopo un viaggio in treno, il giorno 01 ottobre 2017. La notte del 1 ottobre la famiglia ha dormito all’addiaccio sotto un ponte della città di Bolzano.

IL giorno lunedì 2 ottobre la famiglia si è recata presso il servizio Consulenza Profughi della Caritas. In seguito si è recata presso il servizio di assistenza umanitaria della’asssociazione Volontarius, che solo nel pomeriggio ha accompagnato la famiglia in Questura. Essendo la Questura chiusa in quell’orario, la famiglia non ha potuto accedervi e ha ricevuto il numero di prenotazione per l’accesso in ufficio Immigrazione per il giorno successivo.
Il Servizio Integrazione Sociale ha sempre dato risposta negativa in merito ad una presa in carico da parte loro.
La famiglia è stata successivamente portata in ospedale perchè Adan riportava diversi problemi di respirazione e dolori diffusi su tutto il corpo. L’intera famiglia ha passato la notte dormendo in ricoveri di fortuna all’interno dell’edificio ospedaliero.

Martedì 3 ottobre il padre e tre dei figli si recano in Questura per la manifestazione di volontà di richiesta protezione internazionale, mentra la madre con Adan sono ancora in ospedale in osservazione.
Il servizio Consulenza Profughi ha segnalato e sollecitato per iscritto e per via orale le istituzioni (servizi sociali: Servizio Integrazione Sociale, Commissariato del Governo, Provincia) sulla situazione della famiglia. Dalle stesse è pervenuta risposta che la famiglia, in ragione della Circolare Critelli, non poteva ricevere accoglienza.
Il piccolo Adan, cosi come i suoi tre fratellini ( di 6, 10 e 12 anni) sono tutti da considerare vulnerabili la cui accoglienza e presa in carico è regolamentata da una legislazione chiara nazionale ed europea che la ricca provincia alto atesina si permette di non rispettare.
La notte di martedì una parte della famiglia (il padre e i tre bambini) ha dormito in albergo, grazie all’attivazione dell’associazione SOS Bozen, che ha pagato la stanza in albergo.Adan ha dormito in ospedale, in quanto ivi ricoverato, asssieme alla madre.

Mercoledi 4 ottobre, di pomeriggio, il piccolo Adan è stato visitato da un pediatra il quale ha assicurato la madre e la volontaria di SOS Bozen come non vi fossero in quel momento problemi cardiaci e che il cuore stesse funzionando bene. Adan è stato quindi dimesso dall’ospedale. Il pediatra avrebbe voluto tenere Adan ricoverato in ospedale anche i giorni seguenti, ma in seguito a discussione con il primario è stato decisa la dimissione.
La famiglia ha passato tutta la giornata, come quelle successive e quelle precedenti, nel parco della stazione, priva di assistenza ed informazioni, se non quelle fornite dalle associazioni della società civile.
Grazie all’impegno dell’associazione SOS Bozen e di altre realtà associative (Verdi, comunità islamica di Trento e Bolzano, Antenne Migranti, gruppo Antifa Bolzano) e alla solidarietà dei singoli è stata pagata per mercoledì sera un’altra notte in albergo per la famiglia. Tuttavia, vista la assenza in albergo di camere accessibili tramite ascensore, necessario per trasportare Adan, una parte della famiglia (madre e tre bambini) ha dormito in albergo mentre Adan e il padre hanno dormito sul pavimento di una sala di una struttura adebita a centro giovanile, accessibile con sedia a rotelle.

Giovedì 5 ottobre la famiglia ha passato nuovamente la giornata al parco della stazione.
La sera di giovedì 4 ottobre tutta la famiglia ha dovuto dormire sul pavimento di una chiesa locale, la chiesa evangelica, l’unica ad aver aperto le porte, vista la assenza in albergo di camere libere nonché di camere accessibili con l’ascensore.
Sono state contattate tutte le strutture ecclesiali (chiese e conventi) presenti nel capoluogo e nelle località adiacenti, ma nessuna di queste si è resa disponibile per l’accoglienza temporanea.

Venerdì 6 ottobre, di pomeriggio, in via eccezionale la famiglia ha potuto formalizzare la propria richiesta di protezione internazionale, anticipando l’appuntamento che altrimenti le era stato assegnato solo per il giorno 11 novembre. La formalizzazione della richiesta di protezione internazionale è avvenuta in assenza di un mediatore linguistico-culturale; per la comprensione reciproca è stato impiegato uno dei figli, di anni 12 anni, in quanto lo stesso parlava un poco di inglese.

Nel tragitto verso la mensa Caritas, dopo aver lasciato la Questura, Adan è caduto dalla sedia a rotelle a causa di una barriera architettonica. Adan è stato pertanto ricoverato in ospedale in rianimazione. Come si legge dal referto, era in atto un’infezione.
Adan e la madre hanno passato la notte in ospedale, mentre gli altri componenti della famiglia hanno dormito in stanza di albergo, pagata sempre grazie alla solidarietà dei gruppi sopranominati.

Sabato 7 ottobre Adan è stato portato dal reparto di rianimazione a quello di pediatria chirurgica. Era semi incosciente e sotto morfina, ingessato ad entrambi gli arti inferiori dall’inguine alle caviglie. Non era presente febbre alta e la situazione pareva abbastanza tranquilla. Con l’aiuto degli altri figli, impiegati come mediatori linguistici, quindi in totale assenza di questo servizio che dovrebbe essere offerto dalla struttura ospedaliera, il pediatra si era informato con la madre relativamente alla terapia e alle medicine prescritte in Svezia.
Nonostante la situazione post-operatoria sembrasse tranquilla, si era riscontrata un’infezione e quindi erano in atto le ricerche microbiologiche per scoprire il virus o batterio responsabile dell’infezione.
Alle 21.00 la temperatura corporea di Adan era salita.
Alle 2.00 di notte circa Adan è deceduto. Era in atto una crisi di febbre molto alta, in seguito alla quale il bimbo è stato nuovamente ricoverato in rianimazione. Qui i polmoni si sono riempiti di sangue, il bambino ha iniziato ha rimettere sangue; il bambino non riusciva più a respirare, in seguito è sopravvenuto un arresto cardiaco.
L’ospedale ha richiesto tramite un mediatore linguistico-culturale il consenso della famiglia per un’autopsia per verificare le cause della deficienza cardiaca e se questa fosse concausata dalle patologie già presenti. La famiglia ha acconsentito.

Non sappiamo se Adan sarebbe vivo oggi se paesi come Svezia e Italia avessero deciso di rispettare le convenzioni internazionali e le normative relative ai minori.
Le responsabilità di questa tragica vicenda sono ancora tutte da accertare. Per il momento sappiamo che la famiglia è ancora sola e ha, purtroppo, un legame indissolubile con la città dove ha perso un figlio.
Antenne Migranti
Asgi
SOS Bozen

Ventimiglia, una porta d’Europa blindata

 

Ventimiglia, porta occidentale d’Europa. Case colorate, strade da percorrere in salita per raggiungere i giardini botanici di Harbory e poi il fiume Roia, che divide la parte alta da quella bassa della città.
Nella zona moderna  di Ventimiglia, costruita intorno al 1800,  tra ristoranti e alberghi, lungomare e corso principale, si mescolano centinaia di accenti e lingue diverse.
In estate migliaia di turisti attraversano le vie di questa cittadina popolata da circa 30 mila abitanti. A un passo da qui, la Costa Azzurra.
Il fiume Roia non traccia solo la linea di confine italo- francese, ma separa  “noi” e un “loro”.
Tra chi ha diritto di restare in Europa ed essere riconosciuto come essere umano e loro, i migranti.

 

VITE DI SCARTO
I governi occidentali hanno fallito. La globalizzazione ha fatto un buco nell’acqua quando, imponendo le leggi del libero mercato, ha accantonato il Welfare e la tutela dei beni comuni in nome degli interessi economico- finanziari.
E’ in questo sistema che si inseriscono le innumerevoli guerre legate al petrolio e il land grabbing– nuova forma di colonialismo-; responsabili degli innumerevoli spargimenti di sangue e della migrazione di milioni di vite.

Vite umane paragonate ai “rifiuti” da una Fortezza Europa capace di sbarrare le porte e di praticare un’accoglienza indegna.
Vite umane su cui vengono riversati odio, paura e insicurezza di Paesi assuefatti a una politica della legalità a tutti costi (anche se rispettare una legge significa sacrificare l’umana pietà), del terrore e del diverso inteso come unico colpevole dello sfacelo del nostro tempo.

La crisi degli Stati crea barriere e alza muri dietro cui arrancano le “vite di scarto” in fuga sulle nostre coste.
Che si scappi da una guerra, da persecuzioni politiche o si rifiutino condizioni economiche precarie, chi arriva in Italia si scontra con procedure burocratiche complesse e inadeguate.
Impronte, documenti mai ottenuti, comunicazioni scritte in italiano senza alcuna traduzione e poi di nuovo la fuga.
Il salto di una frontiera che, se riuscirà, aprirà la vita a nuove possibilità.

Vite al margine.

Mohammed, Mamadou, Omar, Ibrahima, Mustapha sono solo alcuni dei migranti a cui dalla rovente estate del 2015, quando la Francia ha deciso di abbassare le sbarre chiudendo la frontiera, qualcuno ha dato loro un nome.
Da quel momento in poi, fra sgomberi e scene di violenza, atti di generosità compiuti dal basso, Ventimiglia è diventata il punto di arrivo, e di attesa, per chi vuole uscire dall’Italia.
Solo nel 2016, qui, hanno transitato almeno 25 mila persone. Molte donne, bambini e soprattutto tanti minori che ancora oggi vengono rispediti indietro dalla Gendarmerie francese per svanire spessonel nulla.

Per molti mesi, la Chiesa delle Gianchette ha dato riparo a circa 13 mila persone.  Poi, l’ultimo “attacco”.
Lo sgombero e il trasferimento dei presenti al Parco Roia, dove la Croce Rossa gestisce il campo istituzionale creato per risolvere “l’emergenza”.
Ma il posto non c’è per tutti.

Così, lontano dagli occhi di turisti occupati a tuffarsi nella movida ligure, la riva sinistra del Fiume Roia è diventata un vero e proprio per rifugio per chi non ha trovato riparo altrove.

Letti improvvisati con sacchi a pelo, coperte, cartoni in un ambiente inospitale. I migranti cercano di trovare tepore come meglio possono: la notte è lunga e umida, vicino al letto del fiume Roia.
E deve passare, mentre si prova ad attraversare la frontiera saltando a bordo di qualche treno merci o percorrendo la lunga galleria ferroviaria al buio. Qualcuno tenta addirittura di seguire un vecchio sentiero in mezzo ai Monti. Si chiama Passo della Morte, e di tanti migranti non si è mai più avuta notizia.
Altri, invece, il giorno cercano di prendere un treno dalla stazione di Ventimiglia. Direzione Costa Azzurra. Raramente capita che riescano ad allontanarsi minimo 30 km dal confine (distanza utile per non essere rispediti indietro). La prima fermata della tratta Cote D’Azur è Menton Garavan.
La gendarmerie si prepara con manganelli e chiavistelli per aprire le porte dei bagni; sale sulle vetture e blocca i vagoni per venti minuti più o meno. Basta avere la carnagione olivastra per essere fermati: se non sei in regola, scendi giù e vieni portato alla frontiera.

All’alt non ci sono molte possibilità: o vieni rispedito in Italia, magari a piedi sotto il  sole e con 40°; oppure sei caricato su un bus. Se capiti sul pullman comincia una partita a ping- pong: da Ventimiglia a qualche hotspot; preferibilmente Taranto e poi di nuovo in giro per l’Italia senza un soldo, o rimpatriato.

C’è chi ha provato a varcare quella soglia oltre venti volte e ora, stremato, si accontenterebbe di ottenere i documenti e restare in Italia. Tra una partita a domino e un’altra a scacchi, la vita prova a procedere secondo una straordinaria normalità; mentre le otto di sera si avvicinano e alcune ong si preoccupano di offrire un pasto caldo ai ragazzi.

Scende la sera su Ventimiglia.
Un’altra notte di sogni e speranze,  muri da saltare e ponti da costruire, sta per arrivare.

 

Nel ghetto di San Ferdinando, dove l’inferno è realtà.

Il treno si ferma e una voce registrata annuncia la fermata della stazione di arrivo:Welcome to Rosarno. Benvenuti in questo pezzo di profondo Sud immerso nella Piana di Gioia Tauro.

La strada che porta alle tendopoli di Rosarno si lascia alle spalle il centro abitato coi suoi palazzi lasciati a metà e le case coi foratini in bella vista.
Poi il percorso si perde nella campagna calabrese, arsa da mesi di siccità e avvolta in un clima torrido.
In lontananza, il mare.
Non ci sarebbe bisogno neanche della segnaletica in questo caso: le gru del porto e l’inceneritore indicano quanto la direzione sia giusta. Gioia Tauro, in cui il porto e il termovalorizzatore erano stati presentati come un’importante opportunità di impiego e sviluppo per l’intera economia regionale.
Di crescita occupazionale neanche l’ombra, però. Quello che sarebbe dovuto diventare uno dei più grandi terminal commerciali del Mar Mediterraneo, nel corso degli anni ha visto solo stagioni di licenziamenti e inchieste per traffici illeciti. L’impianto per lo smaltimento dei rifiuti, invece, ha bruciato di tutto finendo per inquinare l’ambiente e portando solo il tasso dei tumori a una percentuale elevatissima.

In questo lembo di Calabria, dove ogni problema molte volte non viene nemmeno preso in considerazione o è risolto mediante “piani di sicurezza”, c’è anche un enorme spiazzo di terra battuta.
Una sorta di linea di confine fra il campo container e la tendopoli di San Ferdinando.

La rivolta di Rosarno. Sono ormai passati sette da anni da quando i migranti escono allo scoperto dai luoghi in cui trovano riparo al ritorno dai campi; casolari abbandonati e capannoni industriali- la Rognetta e la Cartiera- ormai dismessi. Circa 2000 persone fino a quel momento considerate invisibili, a Rosarno,  si uniscono in corteo e la rabbia esplode come il colpo di arma ad aria compressa che la sera prima aveva ferito un paio di braccianti.
I migranti si ribellano ai soprusi delle Ndrine e del caporalato.
Loro non sono più disposti a subire spregevoli angherie e alzano la testa davanti alla ‘Ndrangheta, che dopo aver succhiato e stuprato la Calabria fino alle viscere, ha deciso di continuare il proprio banchetto anche sulla pelle dei migranti.
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno, definisce quell’episodio come “atto rivoluzionario” e in un’intervista sarà lui stesso a spiegare come la “rivolta” dei rosarnesi, scoppiata nelle due giornate succeessive alla protesta dei braccianti, fosse stata strumentalizzata da chi avrebbe preferito continuare a calpestare la dignità di stranieri e italiani.

 

La vita nel ghetto. Alla richiesta di condizioni lavorative e abitative dignitose lo Stato, quindi, risponde investendo milioni di euro per attrezzare un campo con una cinquantina di tende da otto posti letto ciascuna e dieci docce.
Uno spazio che avrebbe dovuto ospitare circa 400 persone.
Come spesso accade, però, ai “piani alti” la distrazione stranamente casuale fa parte del modus operandi e nella tendopoli, durante la stagione della raccolta delle arance, ci sono almeno 3000 persone.
Nel corso di quasi dieci anni, l’area della tendopoli si è ingradita.


Baracche costruite alla meno peggio con pali in legno, teloni cellophanati, lamiere in amianto, compensato, materiale plastificato hanno preso la forma di una casa per uomini e donne che si fermano al crocevia di Rosarno.


Fa caldissimo. Buona parte del campo è andata in cenere agli inizi di luglio, quando un incendio doloso ha polverizzato le baracche.

L’odore acre proveniente dal materiale plastico incendiato si unisce alla puzza proveniente da centinaia di sacchi della spazzatura ammassati lungo tutto il perimetro del ghetto.
L’aria è irrespirabile. Ci sono 40° e l’afa ha reso l’atmosfera una cappa a cielo aperto.

 

In questo inferno manca l’acqua, e l’energia elettrica si ottiene con un paio di generatori.
Le condizioni igienico sanitarie sono pessime. Quando alcuni attivisti del collettivo Mamadou di Bolzano visitano gratuitamente i ragazzi presenti nel campo, capiscono subito come i problemi gastro intestinali siano associati a una scarsa alimentazione e idratazione, e al consumo di acqua non potabile.

Nonostante le difficoltà, questo posto si è trasformato in una sorta di città nella città, con bazar e sala tv.
Alcuni dei ragazzi presenti salutano e chiacchierano fra di loro seduti su una trave di legno all’ombra di teli plastificati. Qualcuno passeggia, altri cucinano quel poco di cibo acquistato pagandolo il doppio.

Il gioco dell’oca.
Per contrastare lo sfruttamento lavorativo e permettere una migliore integrazione dei migranti, la Prefettura di Reggio Calabria ha proposto la solita ricetta risolutiva.
Come da tradizione, dunque, a breve ci sarà lo sgombero del ghetto e la realizzazione di una nuova tendopoli.
Ovviamente, sempre nelle campagne in cui i migranti lavorano dalle 7 del mattino alle 5 del pomeriggio senza neanche potersi lamentare. Lontani dai borghi calabresi e dalla vita quotidiana che dovrebbero poter vivere anche loro.
Invece no. Si torna al punto di partenza: l’emergenza.Hai sbagliato casella. Resta fermo per tre turni.
Insomma, quelle scene di semi- normalità viste all’interno del campo continuano a restare solo delle “prove”.
Assurdo e inaccettabile da parte nostra assistere all’ennesima speculazione; coraggioso da parte loro vedere la forza d’animo di chi, nonostante l’emarginazione e i maltrattamenti, riesce ancora a sorridere sperando in un domani migliore.

Issa: dal Niger al ghetto passando per Bergamo e sognando la felicità

 

Entrata della tendopoli

Nel ghetto di San Ferdinando, a metà strada fa Gioia Tauro e Rosarno, è un giovedì mattina afoso di fine luglio. Fa caldo: la colonnina di mercurio tocca i 40° gradi e il sole picchia sulle nostre teste e su quelle dei migranti, riscaldando i tendoni firmati “Ministero dell’interno” e le baracche costruite alla meno peggio con pali in legno e coperte da teloni plastificati per evitare che filtri l’acqua piovana.

In uno di questi “alloggi”, usato come retrobottega del bazar aperto nel ghetto,  il Collettivo Mamadou di Bolzano (che dopo aver svolto attività di monitoraggio sulle condizioni sanitarie e di vita nel campo per ben due anni,  attraverso una campagna di crowfounding ha acquistato una struttura che sarà montata a inizio autunno e fungerà da ambulatorio, punto legale e scuola di italiano), dopo aver ottenuto un container adibito a studio medico, organizza il corso di alfabetizzazione per i migranti.

Quel mattino siamo in leggero ritardo e un ragazzo, in modo simpatico, ci segnala la mancanta puntualità. Sorride e gli diamo ragione. A lezione è attento, sveglio, ha voglia di imparare e per noi diventa “Issa il Bergamasco”, perchè quando domandiamo da dove venga non esita un minuto a rispondere “Bergamo”, mentre i compagni di classe ridono. Per un attimo è stato come tornare alle scuole superiori, quando ti affannavi a inventare una scusa per non essere interrogata ma oltrepassavi i limiti della credibilità.
A fine lezione mi fermo un po’ a chiacchierare con lui arrivato dal Niger sei anni fa, a maggio 2011.

All’età di sette anni suo padre lo porta a vivere con sè in Ghana affinchè studiasse bene l’inglese e potesse trovare un buon lavoro una volta concluso il suo percorso scolastico. Gli anni scorrono veloci  ma qualcosa va storto e Issa, rimasto orfano, torna in Niger e per un anno vive con la madre. Ma casa sua gli sta stretta. Capisce presto come il Niger non possa offrigli alcuna garanzia lavorativa ed esprime alla madre la voglia di viaggiare e andare via. La donna raccomanda il figlio a un pastore libico che gli offre vitto, alloggio e una paga.

Il ragazzo si trasferisce in Libia e si occupa del bestiame per almeno un anno, finchè non percepisce più lo stipendio. Un mese, due, tre. Dopo sei mesi Issa chiede il salario senza ottenere nulla. e decide di darsi da fare altrove. Comincia a fare il muratore insieme a un amico egiziano. Diventa molto bravo e nel giro di tre anni lavora in proprio.  Tutto procede secondo il verso giusto fino al 17 febbraio del 2011, giorno della morte di Gheddafi. Scoppia la prima guerra civile e Issa, a pochi giorno dall’esplosione della guerriglia, capirà quanto quel posto non sia più tanto sicuro. Un pomeriggio è in casa insieme alle altre alle altre quattro persone con cui divide l’appartamento in cui cui degli uomini armati fanno irruzione all’improvviso.
Non c’è tempo di comprende cosa stia succendendo.

Gli eventi si susseguono in pochi minuti. “Sei contento che sia morto Gheddafi?”, chiedono a uno dei presenti. Issa ricorda solo le armi. Non capisce la risposta. Tutto si consuma in un batter d’occhio: il sangue, i colpi di mitragliatrice, l’istinto che lo porta a saltare giù dalla finestra.
Corre, Issa. Corre, cade, si rialza. Qualcuno gli urla dietro qualcosa. Corre, cade, si rialza. I proiettili sfiorano il suo corpo.
Corre, cade. Resta a terra con la testa insanguinata e il ginocchio sinistro perforato da un colpo sparato da quegli uomini armati. Probabilmente pensano di averlo ucciso ma lui respira ancora.

Rimane in coma per due mesi e al suo risveglio scopre di essere stato salvato da due abitanti del luogo. In ospedale è interrogato da alcuni miitari libici, interessati a sapere perchè fosse in Libia e dove volesse andare. Il ragazzo chiede di poter tornare in Niger per riabbracciare la mamma ma è impossibile attraversare il territorio libico e varcare i confini. Viene trasferito in una città costiera e viene ospitato per circa dieci giorni in una struttura adiacente il porto.

Una fila di baracche nel ghetto

 

Destinazione Italia. 1.200 persone stipate a bordo di una nave a tre piani attraversano il Mar Mediterraneo e raggiungono le coste di Lampedusa. Poco più che ventenne, Issa si ritrova in un Paese lontano migliaia di chilometri dai suoi cari. Solo e pieno di dolori post- convalescenza. E’ trasferito a Bergamo, nuova residenza italiana per almeno un anno. Ospite di uno sprar, lavora alla realizzazione di un evento culturale di cui dice di non ricordare il nome. Terminato il periodo di proroga sull’ospitalità al centro,  va a vivere da un suo amico. Le vertigini sono passate e la ferita alla testa si è rimarginata e così Issa torna a impastare calce e cemento nella bergamasca, per poi lasciare lo Stivale alla volta della Germania.
Passa due anni vendendo i giornali porta a porta, torna a Bergamo a rinnovare i documenti e risale nuovamente in Germania.  Adesso Issa ha 30 anni e dal 2016  vive fra Napoli e Rosarno.

In Calabria ha raccolto le arance sotto lo schiaffo del caporale per 700, 800 euro al mese, lavorando dalle 7 del mattino alle 16.30 del pomeriggio. Dall’alba al tramonto nei fitti agrumeti calabresi, non riuscendo neanche a vedere la luce del sole. Si sopravvive fra la stagione degli agrumi, il razzismo e i luoghi comuni sui migranti e l’inospitale ghetto.
Nella tendopoli la vita non è facile. La pioggia caduta la notte prima ha ravvivato l’odore acre della cenere lasciata dal rogo appiccato all’altra metà del campo all’inizio del mese di Luglio.  La puzza dei teloni plastica sciolta dalle fiamme è forte, mentre i rifiuti abbandonati lungo tutto il perimetro della tendopoli formano una specie di banchina. Le condizioni igienico sanitarie del campo sono pessime. Dormire è impossibile.

Il ghetto di San Ferdinando è un luogo infernale. Creato grazie a miliardi di euro e dalla geniale idea di istituzioni capaci di affrontare questioni sociali e umanitarie come un’emergenza, oggi è una pozzanghera a cielo aperto durante i temporali e nulla, lì dentro, è riconducibile nemmeno a una prima e misera accoglienza.
A Rosarno muore l’umanità, così come svanisce ogni sentimento di pietà umana tutte le volte in cui i problemi presenti in Italia, ma soprattutto in Calabria, vengono addebitati ai migranti invece sfruttati e calpestati nella loro dignità.

Quando chiedo a Issa dove gli piacerebbe andare e cosa si aspetta dal futuro, mi risponde: “Voglio tornare a Bergamo. Qua non c’è lavoro.” Poi mi guarda, sorride e aggiunge: ” Vorrei un po’ di felicità e una vita migliore”.
Si possono mai alzare muri e recinti alla speranza? Io penso proprio di no. 

Taranto. Alla frontiera dell’hotspot

Breve report da Taranto, dove i cui i migranti vengono identificati e poi rimandati in altre zone del Bel Paese. 

Il sole splende alto e soffia una fresca brezza marina su Taranto. Fa caldo in questa giornata di aprile e le barche ancorate al porto, l’acqua apparentemente cristallina, rendono meno lontani i giorni che mancano all’inizio dell’estate. Taranto, quasi da cartolina: il porto, i viali ordinati e i palazzi eleganti della città nuova.
Taranto, quasi da fotografia: la città vecchia costruita su un’isola collegata da un ponte girevole alla terraferma. Pare che il tempo si sia fermato fra le mura del centro storico. Poco distante dalla piazza principale, sul lungomare i pescatori raccolgono le reti.

Fra i vicoli di questo borgo antico si gira accompagnati dal sottofondo di un continuo vociare mentre si passa accanto a chiese, palazzi d’epoca, reperti archeologici. Ogni cosa racconta l’importanza di quella che fu la capitale della Magna Grecia. Un continuo contrasto attraversa la città vecchia: a fianco a tanta bellezza storica, il decadimento e l’abbandono mostrato da abitazioni disabitate e strutture murate, chiuse, a pezzi.
E poi Piazza Fontana coi bar, i ristoranti e un gruppo di bambini che vendono palme intrecciate per la Settimana Santa. Uno di loro mi viene incontro trotterellando “Compri una palma? Costa un euro. Domenica c’è la Messa delle Palme.” Gli faccio una carezza sulla testa e mi prende per un braccio portandomi dai cugini e dalle amiche. E’ un gruppo di bambini tra i 6 e i 10 anni. Mi riempiono di domande e mi raccontano cosa fanno nelle loro giornate, quando a un certo punto una di loro dice: “Lo sai che Taranto è come Napoli? Noi siamo come i bambini napoletani.”
In quelle parole lo scatto a un’Italia che corre a due velocità.

Da questo punto del piazzale alle spalle delle barche attraccate, della tangenziale, delle case in lontananza, si levano al cielo colonne altissime e fumanti. Blu, come il colore del firmamento che fa da coperta a questa città spaccata a metà. E’ il cielo dell’Ilva.
Il Rione Tamburi, o “I Tamburi”, non dista molto dalla stazione dei treni e degli autobus, collocandosi a una manciata di chilometri dal colosso siderurgico. Pare che un mantello di ruggine abbia ricoperto l’intero quartiere. Un velo rosso porpora ricopre il campetto da calcio, l’asfalto, le facciate delle abitazioni, la terra. Alcune case sono state dipinte della stessa tonalità “regalata” dalle polveri dei minerali e dei veleni buttati fuori dalla pancia della fabbrica.
Una nube tossica, invisibile,che fa nascere bambine e bambini già ammalati di cancro e causa del raddoppiato numero di persone malate di tumore rispetto a dieci anni fa.
Su un muro qualcuno ha scritto “Riva boia”.

E immediatamente mi tornano in mente gli scioperi, gli operai arrampicati sui silos, uno striscione steso a sventolare fuori dall’ex industria tessile del mio paese: “I morti Marlane chiedono giustizia”. Poi l’elenco di 108 morti bianche rimaste senza giustizia. “Il fatto non sussiste”, dichiarò il giudice alla termine del processo di primo grado.
Quei bambini hanno ragione: Taranto non è solo come Napoli ma è simile a qualunque altra città del Sud Italia. Sfruttata e calpestata da industriali venerati come benefattori giunti dal Nord a gettare un’ancora di salvezza a chi per anni ha sofferto la fame e lo sfruttamento nelle campagne o le faticate battute di pesca in mezzo al mare in burrasca. Quegli stessi signorotti decisi a chiudere e a trasferire le stesse industrie in Paesi poveri, pagando la manodopera meno di un caffè. La fine dell’illusoria “rivoluzione industriale del Tirreno Cosentino”, il crollo del sogno della Torino del Sud alla chiusura della Pertusola Sud di Crotone , l’Eni di Viggiano (Potenza) e anche Taranto descrivono un dramma nel dramma. Il conflitto interiore dei disoccupati. Quanto è stato enorme l’inganno di chi ti aveva assunto con un “posto fisso”, finendo a distruggere l’ambiente circostante ma soprattutto, dopo averti costretto a lavorare in pessime condizioni (gli operai della Marlane ricordano ancora quando nei reparti aspiravano i fumi delle tinture per le stoffe coi loro stessi polmoni: niente impianto di aspirazione. Bisogna pur sempre risparmiare in tempi di crisi, no?)? Ora, dopo essersi appropriato delle tua vita e lasciando devastazione, se ne andava lasciando attorno a te solo disoccupazione.
Senza un lavoro è ripresa una nuova ondata di emigrazione. Oltre il danno, la beffa: la carente rete sanitaria e la mancanza di uno stipendio hanno reso difficile curare le malattie regalate tra i fumi tossici e gli scarti industriali.
Ma i racconti operai di un Sud distrutto (e non solo, purtroppo) appartengono a un capitolo a parte e non basterebbe un libro per analizzare i complessi legami intrecciati fra miseria, interessi dei forti e il tallone di ferro schiacciato sui più deboli.
Torniamo in mezzo al rosso delle polveri dell’Ilva, dei pozzi petroliferi delle raffinerie dell’Eni, dove fra il porto mercantile Varco Nord e la tangenziale, in un deserto di capannoni abbandonati e fra le difficoltà sociali ed economiche di una città che comunque non mostra affatto, e per fortuna, la scia dell’ondata xenofoba che da troppo tempo avvolge il nostro tempo, ci sono tendoni bianchi e un recinto. Benvenuti all’hotspot di Taranto, la nuova geniale idea della Fortezza Europa.

Ma partiamo dalle origini: che cos’è l’hotspot? Per far fronte alle richieste di asilo l’Ue, in accordo con l’Agenzia Frontex (agenzia europea gestione frontiere), l’EASO (ufficio europeo di sostegno per l’asilo), l’Europool (agenzia cooperazione delle forze di polizia) e l’Eurojust (agenzia europea cooperazione giudiziaria), nel 2015, avvia questi primi punti in cui le persone giunte sulle nostre coste vengono identificate, registrate e rilevate con le impronte digitali fra le 48 e le 72 ore. Lampedusa è stato l’hotspot satellite a cui si aggiungono Augusta, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle e, appunto, Taranto. Chi rifiuta di sottoporsi alle procedure seguite anche dalla polizia italiana e da altri operatori del settore dell’accoglienza, finisce dritto dritto nei nuovi centri di detenzione per l’espatrio (prima si trattava dei Cie, modificati dal decreto Minniti- Orlando).
Per quattro giorni, insieme a volontari e attiviste dell’associazione Stamp, ho partecipato alle attività di monitoraggio su uno dei punti caldi per l'(in)accoglienza all’italiana riservata a rifugiati e richiedenti asilo. Nei pressi della stazione ferroviaria è stato allestito un info- point con wi fii gratuito, mediazione linguistica, assitenza legale. Nel giro di pochi giorni abbiamo conosciuto molti ragazzi provenienti principalmente dall’Africa, a cui abbiamo dato quelle informazioni scarse o mancanti. Spesso neanche ventenni, gli ospiti dell’hotspot sono stati rastrellati a Ventimiglia o Como e, caricati su un autobus, portati a Taranto. Solo nel 2016, qui hanno transitato oltre 6000 persone.
Gambia, Mali, Isole Comore, Senegal, Nigeria, Guinea, Bangladesh: ognuno di loro portava con sè una storia e negli occhi aveva tutta la paura e la speranza racchiusa per avere una vita migliore.
Dopo aver oltrepassato l’inferno delle carceri libiche e i viaggi sui gommoni, ora si trovavano in una “cella” vista mare da cui potevano uscire vagando senza una direzione ben precisa.
A parte il tappeto rosso dei veleni made in Ilva, intorno all’hotspot esiste il nulla. Una strada deserta che poco più sopra si unisce allo svincolo della tangenziale; la stessa attraversata dai migranti per arrivare in città. Qualcuno stringe in mano un foglio di carta. E’ un “Biglietto di invito” a presentarsi nella questura indicata dalla prefettura di Taranto entro 72 ore dalla notifica. Un breve testo, scritto interamente in italiano,  riporta le generalità del migrante e indica le varie mete da dover raggiungere: da Milano a Cremona, Bergamo, Torino, Bologna, Crotone, Reggio Calabria.
E qui il meccanismo hotspot, e accoglienza in generale, si inceppa peggio di quanto non abbia fatto prima. I migranti, sballottati come un pallina da ping pong da Nord a Sud senza sapere a quale destino vadano incontro, in tasca non hanno un centesimo ma devono assolutamente presentarsi sul posto di polizia indicato; pena la multa di oltre 200 euro o l’arresto fino a tre mesi. Ma come si arriva in Calabria, se nonostante in linea d’aria disti una manciata di chilometri dal territorio pugliese, i treni viaggiano su un unico binario e il percorso diventa una corsa a ostacoli bus- treno- bus e si impiegano anche otto ore? Come si raggiunge una qualunque destinazione del Nord Italia, se da Taranto ci vuole quasi una giornata? E soprattutto, problema principale, in quale modo i migranti possono pagare il biglietto di Trenitalia o di una compagnia di autobus se non hanno soldi a disposizione? E’ vero, si può sempre tentare la fortuna salendo su un qualsiasi vagone e sperare che il controllore non arrivi o ti lasci scendere a destinazione. Ma così non va, è evidente.

A maggior ragione quando su parecchi di questi “inviti” è impresso a penna  “non entra”. Tradotto: non c’è posto. Arrangiati a trascorrere la notte e il resto del tempo in qualche maniera. La mancata disponibilità di posti prevista per chi ha presentato la richiesta di asilo nella questura del posto che poi ha lasciato, è oggetto di espulsione o non può/ vuole richiedere la protezione abbandona i migranti a loro stessi, rendendoli vulnerabili a situazioni di estremo rischio: dall’arruolamento sotto il caporalato alla criminalità organizzata. La disperazione per aver perduto tutto e la preoccupazione di “essere solo un numero, un illegale” porterebbe chiunque di noi, in quelle condizioni, ad accettare patti in condizioni di vita ottimali impensabili.
Quel “non entra”, per esempio, è toccato anche a due donne delle Isole Comore; incontrate in un caldo pomeriggio. Le due ragazze sono arrivate sul piazzale della stazione in lacrime. Non capivano nulla di cosa stesse accadendo e, oltre alla loro lingua, spiaccicavano solo qualche parola di francese. Destinazione Bologna, che avrebbero raggiunto alle 4. 30 del mattino successivo. Un orario poco sicuro specie per quanto riguarda due donne migranti, e non in relazione al fatto che fossero sole (banalmente non lo erano.. erano in due!) o appartenenti al sesso debole ma  perchè, in un contesto sconosciuto e linguisticamente incomprensibile,  facilmente possono essere attirate nella trappola della tratta. Dopo innumerevoli sforzi, finalmente si trova il modo di comunicare con loro e in serata potranno alloggiare in un dormitorio. Sembrava tutto perfetto, se non fosse stato che all’improvviso le perdiamo di vista. Inizia la nostra affannata ricerca e ci porta fino all’autostazione, dove le troviamo in compagnia di altre persone. Affermando di dover seguire un ipotetico “mon frère” con la promessa che le avrebbe accompagnate in Francia. Proprio per varcare il confine italiano, le due donne vengono prelevate da Ventimiglia per sparire in mentre ci giriamo per un momento, un’altra volta, in un buco nero. Senza forze per il carico di delusione e impotenza davanti all’evidenza che nulla avremmo potuto fare, ce ne andiamo con tanta rabbia.

E’ questa la sicurezza offerta dallo Stato italiano e dall’Europa intera, mentre creano staccionate e alzano muri?
Ricordo un ragazzo del Gambia dirmi “Calabria no good. No food. No good”. Quando ho letto dell’operazione Johnny, in cui si è scoperto che il CARA di Crotone è stato amministrato da ‘Ndragheta e istituzioni colluse, ho capito cosa significasse quel “no good”. E questo il sistema di accoglienza da criticare, non le 35 euro al giorno e i fantomatici hotel a 5 stelle allestiti come alloggio per chi scappa da guerre e povertà, ma in realtà montati ad hoc per nascondere nefandezze e imbrogli di chi sta facendo dell’accoglienza e dei viaggi della speranza solo un enorme, grande business. Accogliere non equivale a ghettizzare chi scappa da guerra e fame in luoghi distanti da ritrovi sociali. Non si può far finta di non vedere.
Non è questa l’Italia sognata, nè da loro nè da noi se manteniamo ancora un minimo senso di solidarietà. Ed è forse il momento di chiedere rispetto per altri esseri umani. Proprio come noi.

Gambarie, Aspromonte. In un hotel (non) a 5 stelle

Ormai è un mantra. Dai programmi spazzatura e pro- xenofobia (come le vetrine di Del Debbio e Belpietro mandate in onda su Rete4) alle perle di Salvini e Meloni, il ritornello è sempre lo stesso: “Gli italiani al freddo e al gelo, senza lavoro, e gli immigrati negli hotel”.
Cavallo di battaglia della Lega Nord e del resto dello scenario “politico” italiano che troppo si colloca in uno spazio temporale non ancora superato, il solito slogan viene tirato fuori a mo’ di “soluzione” alle troppe domande lasciate aperte dalle problematiche economiche e sociali di casa nostra.

Basta uscire dal circuito populista e leggere qualche rapporto presentato da Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, LasciateCientrare e per aprire gli occhi su un “sistema accoglienza” distante anni luce da quello perennemente presentato da una politica concentrata a rimarcare un “noi” e un “loro”.
Noi e loro. Noi meritevoli di qualunque diritto; loro da ricacciare nei Paesi dilaniati da disastri ambientali e climatici, guerre, carestie e una sciagura umanitaria perpetrata da anni proprio dall’Occidente- fortezza.
Noi e loro. Un binomio simile a un’alta muraglia in cemento armato alzata per separare gli uni e le altre, impedendoci di vedere oltre luoghi comuni e leggende metropolitane.

Di caviale e champagne, personal trainer e idromassaggio a Gambarie, frazione di Santo Stefano D’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, non c’è manco l’ombra.
Dopo essersi lasciati alle spalle Villa San Giovanni e la Sicilia, che viste da quassù appaiono nella loro bellezza maestosa, la visione del bel panorama finisce quasi subito. Un gruppo di case appeso a 1400 metri d’altezza sul livello del mare e 114 abitanti. La bottega in piazza vende i prodotti tipici calabresi. Ed è tutto qua: i piccoli negozi, una fontana. A destra una delle piste sciistiche e un albergo. A sinistra l’Hotel Excelsior, ribattezzato dalla cronaca locale come “l’hotel degli orrori”.
Descritto da varie “testate giornalistiche” come il luogo della rivolta dei migranti intestarditi a chiedere cibo di alta qualità e dalle mille pretese, la visita al Cas (Centro Accoglienza Straordinaria) in cui ho affiancato il Cosmi di Reggio Calabria e Lasciatecientrare nello scorso febbraio, non ha mostrato affatto un posto ospitale. A partire dai gestori della struttura, infastiditi dalla nostra presenza.
Tra la fine del 2016 e l’inizio dell’anno corrente, i cento migranti circa ospitati all’interno della struttura hanno occupato un’ala dell’albergo chiedendo che fossero rispettati i loro diritti fondamentali. Cibo, vestiti, cure mediche. Nel giro di poco tempo, ci sono state venti revoche ai cosiddetti “facinorosi”.
Fra loro era presente anche un ragazzo proveniente dal Camerun e morto solo qualche giorno fa in un letto d’ospedale a Reggio Calabria a nemmeno 30 anni. Richard, questo era il suo nome, si è ammalato di tumore al fegato e aveva bisogno di cure farmacologiche e visite di controllo a cui doversi sottoporre proprio nel capoluogo siciliano. Molte volte il suo diritto alla salute veniva calpestato, e per tale ragione aveva protestato insieme agli altri ospiti anche nel mese di gennaio 2017. Come gli altri, Richard era poi stato trasferito altrove.

I migranti, come si apprende in una nota scritta da LasciateCientrare e Cosmi, descrivono un quadro drammatico:

 “Medicinali non somministrati a chi ne avrebbe bisogno, spesso come forma umiliante e crudele di punizione per aver protestato per qualche motivo o, peggio ancora, per aver denunciato all’esterno alcune mancanze nella gestione dell’accoglienza così come realizzata dal personale dell’albergo. O ancora, i termosifoni lasciati spenti fino a qualche giorno fa, con ragazzi che lamentano dolori al petto dovuti a un freddo lancinante che avrebbe loro impedito di dormire, specie nelle notti di gelo che la Calabria ha conosciuto poche settimane fa. L’acqua corrente non sarebbe quasi mai calda, e molti ragazzi hanno raccontato di non potersi lavare da giorni. La notte, inoltre, i ragazzi verrebbero chiusi a chiave nella struttura, e qualcuno, non potendovi rientrare, ha dovuto dormire all’aperto nel mese di dicembre.” Rapporto LasciateCientrare

Concordo su quanto riportato dagli attivisti delle due reti: perchè dubitare delle testimonianze di questi giovani abbandonati ad alta quota, in mezzo alla neve e lontani da qualunque tipo di socialità? Reggio Calabria dista 30 chilometri e i collegamenti, a quanto pare e come ben sappiamo, non sono dei migliori.
Si legge sempre nella stessa nota:

Ma è il clima generale della struttura, incentrato su una forsennata caccia alle streghe – alias i migranti che denunciano o criticano le pessime condizioni della gestione del centro – a preoccuparci e a imporci di vigilare in maniera continua sullo stato effettivo dell’accoglienza nel nostro territorio, a Gambarie non solo. Troviamo inaccettabile che i responsabili di una struttura deputata all’accoglienza dei migranti, e che per questo motivo riceve finanziamenti pubblici importanti, governi la situazione col terrore, dato che molti ragazzi anche in occasione della nostra visita avevano paura di essere visti o addirittura fotografati nel momento in cui parlavano con noi. Ancora più incredibile è che da più un mese non siano stati affidati ufficialmente ad una cooperativa (che subentri alla vecchia, attiva a Gambarie fino al 31 dicembre scorso) servizi essenziali quali ad esempio l’assistenza legale e sanitaria, le attività educative, la mediazione culturale.

Dov’è il reale senso di accoglienza se sulla pelle dei migranti continua a esserci un grosso business? E’ doveroso ricordare quanto i 35 euro tanto decantati a guadagno dei migranti stessi (peccato come nella maggior parte dei casi non abbiano manco un centesimo in tasca), finiscano direttamente nelle casse di alberghi ed enti vari.
Scriveva Bauman nel suo saggio “Vite di scarto”: <<I ghetti, con o senza nome, sono istituzioni antiche. Sono serviti alla «stratificazione composita» (e anche, in un sol colpo, alla «deprivazione multipla»), sovrapponendo differenziazione sovrapposta per casta o per classe e separazione ter-ritoriale. I ghetti possono essere volontari o involontari (benché soltanto questi ultimi tendano a recare su di sé il marchio infamante del nome), e la principale differenza fra i due tipi è da quale parte del «confine asimmetrico» siano rivolti, cioè verso gli ostacoli ammonticchiati all’ingresso o all’uscita del territorio del ghetto.>>

Come possiamo parlare di una società multiculturale armoniosa, se chi arriva in Italia si sentirà sempre escluso e chiuso in quella bolla etichettata, appunto, come “loro” e rinchiuso in contrade, piccoli paesi, borghi semi abbandonati senza poter interagire con altre persone?
Eppure sarebbe semplice abbattere certe barriere e tendere una mano troppe volte trattenuta per un’assurda paura del “diverso”. Basterebbe arrampicarsi sulle reti di protezione e allungare il collo per comprendere quanto le suite extra lusso e i centri benessere di cui godrebbero “gli invasori” siano una marea di frottole montate ad hoc per raccattare voti e distrarci da altre preoccupazioni ben più reali. E urgenti, soprattutto.