#RottaBalcanica. A Sid, fra violenza e solidarietà.

La neve, una coperta sulle spalle, un paio di infradito ai piedi. Una fila lunga interminabile davanti a un banchetto sopra cui viene posato del cibo distribuito da qualche volontario. E’ Belgrado lo scorso anno, in una foto scattata nelle mille immagini viste in tutto il Mondo.

Poi le botte, i manganelli, le reti o gli scudi: in ogni modo, un altro muro alzato e il campo della capitale serba sgomberato. C’è chi urla di tornare a casa propria perchè in Europa non c’è posto. E intanto emana decreti di sicurezza stringendo nuovi accordi disumani. Fingendo indignazione. E c’è chi, invece, un disgustoso senso di disprezzo verso l’emarginazione lo prova sul serio. Togliere il sipario di odio calato troppo spesso su bambini, donne, uomini che oggi cercano riparo dalle bombe nel recinto della Fortezza Europa è un obbligo.

Fra il filo spinato e i ghetti, tra i muri da scavalcare e i boschi da attraversare, piantonati da guardie armate e dalla mano di una legge che schiaccia i più deboli, qualcuno sfida le barriere e porge una mano al prossimo.

Sul confine serbo- croato, a portare solidarietà, si trova anche Anna. Qualche mese dopo non si ferma e  parte alla volta di Ventimiglia, dove ci incontriamo e mi racconta la sua esperienza.
Poco più di vent’anni, dolce e determinata, Anna ha trascorso qualche mese a Sid; una cittadina serba di 15mila anime a qualche chilometro dalla Croazia.

SID è divenuta punto “di approdo” per centinaia di afghani, pakistani e nord- africani- soprattutto minori di età non accompagnati- provenienti da Belgrado, che vivono fra la “giungla”-una foresta- e una fabbrica dismessa. Le condizioni igienico- sanitarie sono pessime. Il cibo scarseggia.
“Se non fosse per piccole ong, associazioni umanitarie impegnate a distribuire kit sanitari, montare docce, offrire un pasto caldo, queste persone sarebbero completamente abbandonate a loro stesse”, dice Anna.

E racconta: “Era l’ora del chai -il tipico tè- e dei biscotti, quando un ragazzo mi chiede << Give more, please! Give more for the game!>> . “The game” sarebbe il tortuoso percorso che devono affrontare per raggiungere la frontiera croata. Tentano davvero la fortuna.” E aggiunge: “Affrontano il viaggio allacciati sotto un tir, saltando sui vagoni dei treni merci oppure, come spesso accade, camminano circa 10 giorni a piedi, per i boschi, fino a raggiungere Zagabria. Se non li prendono prima… in quel caso, beh, vengono rispediti indietro con abiti e scarpe consumati, oltre ad avere lividi ed escoriazioni dovute alle violenze della polizia. ”
Ma sulla pelle delle persone in fuga dalle frontiere non pende solo il manganello: qualcuno fa business. Ed è il caso degli smuggler, i trafficanti di esseri umani, che portano i migranti oltre la frontiera. O meglio, tentano di saltare la barriera. Se il risultato non sempre è garantito, il pagamento si: un passaggio costra tra le 150 e le 300 euro. Cifre altissime.

“Dopo il gelo dello scorso inverno, chi arriva qui attende un pasto per ore sotto il sole”, e prosegue “Dallo scorso giugno, la polizia porta avanti una serie di rastrellamenti e deportazioni forzate, come lo spostamento di molte persone nel campo profughi di Presevo. Vogliono assicurarsi che il confine sia libero e così li trascinano a 500 km lontani da Sid.” E allora ricomincia il giro.
I migranti non si arrendono e ritentano la fortuna.

TRAPPOLA SERBIA. Migliaia di persone si trovano rinchiuse in questo lembo di terra dove non vogliono restare. “Vorrebbero raggiungere le proprie famiglie in Francia, Germania. Non vogliono rimanere qui”, mi dice Anna. “Non è vita, questa. I campi profughi sono sovraffollati e i servizi igieni scarsi, scarsissimi”, e continua “Nemmeno il cibo è un granchè. Pensa, mi hanno raccontato di aver avuto wurstel di maiale a colazione… e loro sono mussulmani!” Un paio di volte a settimana, le associazioni delegate dell’UNHCR si recano a Sid invintando i migranti a entrare nel campo profughi, oppure li deportano in un altro spazio governativo; come il campo di Adasevci, pieno di famiglie.

Nel 2016, in Serbia ci sono state solo 574 richieste di asilo: ne sono state accolte solo 23. 19 persone hanno ottenuto una protezione sussidiaria e altre 40 sono state oggetto di diniego.

TRACCE DI SOLIDARIETA‘. Eppure, contro l’ostilità delle autorità serbe e il razzismo dilagante la solidarietà non si arresta. E così Lyuba, una signora di 70anni residente a Sid, armata di grembiule e mattarello, bussa alla porta di NoNameKitchen, una piccola Ong spagnola, e aiuta ragazze e ragazzi a preparare i pasti per altri esseri umani a cui la vita ha tolto tutto. O quasi.
“Le Ong, qui, operano ai limiti dell’illegalità. Ma quei volontari si impegnano ogni giorno a dimostrare che ancora una speranza di umanità c’è”, afferma Anna sorridendo.

E un sorriso, forse, è la nostra prima speranza per un futuro migliore.

 

 

Comunicato di Antenne Migranti, Asgi e SosBozen sulla morte del piccolo Adan

Pubblico il comunicato che mi è stato inviato dagli attiviste e dalle attiviste di Antenne Migranti, che svolgono un’importante attività di monitoraggio lungo la rotta del Brennero, sulla drammatica morte di Adan; un ragazzino di solo 13 anni  affetto da distrofia muscolare fuggito da Kirkuk nel 2015.

Ancora una volta, il sistema (dis)accoglienza presente in Italia mostra il proprio volto più disumano.

 

Cronaca di una morte annunciata
ovvero come la mancata accoglienza ha ucciso ancora.

La famiglia A.H., composta da genitori e 4 bambini di cui uno, Adan affetto da distrofia muscolare e costretto in sedia a rotelle, era scappata da Kirkuk ( città a circa 250 km da Baghdad) e arrivata in Svezia nel dicembre 2015.
Dopo quasi due anni di attesa, nel febbraio 2017, ha avuto l’intervista relativa alla propria richiesta di protezione internazionale. A settembre ha ricevuto la risposta, negativa.
In seguito al diniego ricevuto in Svezia in merito alla richiesta di protezione internazionale e alla minaccia di espulsione e rimpatrio coatto in Iraq se non avesse provveduto ad allontanarsi volontariamente dal paese, la famiglia ha deciso di lasciare la Svezia. E’ giunta a Bolzano, dopo un viaggio in treno, il giorno 01 ottobre 2017. La notte del 1 ottobre la famiglia ha dormito all’addiaccio sotto un ponte della città di Bolzano.

IL giorno lunedì 2 ottobre la famiglia si è recata presso il servizio Consulenza Profughi della Caritas. In seguito si è recata presso il servizio di assistenza umanitaria della’asssociazione Volontarius, che solo nel pomeriggio ha accompagnato la famiglia in Questura. Essendo la Questura chiusa in quell’orario, la famiglia non ha potuto accedervi e ha ricevuto il numero di prenotazione per l’accesso in ufficio Immigrazione per il giorno successivo.
Il Servizio Integrazione Sociale ha sempre dato risposta negativa in merito ad una presa in carico da parte loro.
La famiglia è stata successivamente portata in ospedale perchè Adan riportava diversi problemi di respirazione e dolori diffusi su tutto il corpo. L’intera famiglia ha passato la notte dormendo in ricoveri di fortuna all’interno dell’edificio ospedaliero.

Martedì 3 ottobre il padre e tre dei figli si recano in Questura per la manifestazione di volontà di richiesta protezione internazionale, mentra la madre con Adan sono ancora in ospedale in osservazione.
Il servizio Consulenza Profughi ha segnalato e sollecitato per iscritto e per via orale le istituzioni (servizi sociali: Servizio Integrazione Sociale, Commissariato del Governo, Provincia) sulla situazione della famiglia. Dalle stesse è pervenuta risposta che la famiglia, in ragione della Circolare Critelli, non poteva ricevere accoglienza.
Il piccolo Adan, cosi come i suoi tre fratellini ( di 6, 10 e 12 anni) sono tutti da considerare vulnerabili la cui accoglienza e presa in carico è regolamentata da una legislazione chiara nazionale ed europea che la ricca provincia alto atesina si permette di non rispettare.
La notte di martedì una parte della famiglia (il padre e i tre bambini) ha dormito in albergo, grazie all’attivazione dell’associazione SOS Bozen, che ha pagato la stanza in albergo.Adan ha dormito in ospedale, in quanto ivi ricoverato, asssieme alla madre.

Mercoledi 4 ottobre, di pomeriggio, il piccolo Adan è stato visitato da un pediatra il quale ha assicurato la madre e la volontaria di SOS Bozen come non vi fossero in quel momento problemi cardiaci e che il cuore stesse funzionando bene. Adan è stato quindi dimesso dall’ospedale. Il pediatra avrebbe voluto tenere Adan ricoverato in ospedale anche i giorni seguenti, ma in seguito a discussione con il primario è stato decisa la dimissione.
La famiglia ha passato tutta la giornata, come quelle successive e quelle precedenti, nel parco della stazione, priva di assistenza ed informazioni, se non quelle fornite dalle associazioni della società civile.
Grazie all’impegno dell’associazione SOS Bozen e di altre realtà associative (Verdi, comunità islamica di Trento e Bolzano, Antenne Migranti, gruppo Antifa Bolzano) e alla solidarietà dei singoli è stata pagata per mercoledì sera un’altra notte in albergo per la famiglia. Tuttavia, vista la assenza in albergo di camere accessibili tramite ascensore, necessario per trasportare Adan, una parte della famiglia (madre e tre bambini) ha dormito in albergo mentre Adan e il padre hanno dormito sul pavimento di una sala di una struttura adebita a centro giovanile, accessibile con sedia a rotelle.

Giovedì 5 ottobre la famiglia ha passato nuovamente la giornata al parco della stazione.
La sera di giovedì 4 ottobre tutta la famiglia ha dovuto dormire sul pavimento di una chiesa locale, la chiesa evangelica, l’unica ad aver aperto le porte, vista la assenza in albergo di camere libere nonché di camere accessibili con l’ascensore.
Sono state contattate tutte le strutture ecclesiali (chiese e conventi) presenti nel capoluogo e nelle località adiacenti, ma nessuna di queste si è resa disponibile per l’accoglienza temporanea.

Venerdì 6 ottobre, di pomeriggio, in via eccezionale la famiglia ha potuto formalizzare la propria richiesta di protezione internazionale, anticipando l’appuntamento che altrimenti le era stato assegnato solo per il giorno 11 novembre. La formalizzazione della richiesta di protezione internazionale è avvenuta in assenza di un mediatore linguistico-culturale; per la comprensione reciproca è stato impiegato uno dei figli, di anni 12 anni, in quanto lo stesso parlava un poco di inglese.

Nel tragitto verso la mensa Caritas, dopo aver lasciato la Questura, Adan è caduto dalla sedia a rotelle a causa di una barriera architettonica. Adan è stato pertanto ricoverato in ospedale in rianimazione. Come si legge dal referto, era in atto un’infezione.
Adan e la madre hanno passato la notte in ospedale, mentre gli altri componenti della famiglia hanno dormito in stanza di albergo, pagata sempre grazie alla solidarietà dei gruppi sopranominati.

Sabato 7 ottobre Adan è stato portato dal reparto di rianimazione a quello di pediatria chirurgica. Era semi incosciente e sotto morfina, ingessato ad entrambi gli arti inferiori dall’inguine alle caviglie. Non era presente febbre alta e la situazione pareva abbastanza tranquilla. Con l’aiuto degli altri figli, impiegati come mediatori linguistici, quindi in totale assenza di questo servizio che dovrebbe essere offerto dalla struttura ospedaliera, il pediatra si era informato con la madre relativamente alla terapia e alle medicine prescritte in Svezia.
Nonostante la situazione post-operatoria sembrasse tranquilla, si era riscontrata un’infezione e quindi erano in atto le ricerche microbiologiche per scoprire il virus o batterio responsabile dell’infezione.
Alle 21.00 la temperatura corporea di Adan era salita.
Alle 2.00 di notte circa Adan è deceduto. Era in atto una crisi di febbre molto alta, in seguito alla quale il bimbo è stato nuovamente ricoverato in rianimazione. Qui i polmoni si sono riempiti di sangue, il bambino ha iniziato ha rimettere sangue; il bambino non riusciva più a respirare, in seguito è sopravvenuto un arresto cardiaco.
L’ospedale ha richiesto tramite un mediatore linguistico-culturale il consenso della famiglia per un’autopsia per verificare le cause della deficienza cardiaca e se questa fosse concausata dalle patologie già presenti. La famiglia ha acconsentito.

Non sappiamo se Adan sarebbe vivo oggi se paesi come Svezia e Italia avessero deciso di rispettare le convenzioni internazionali e le normative relative ai minori.
Le responsabilità di questa tragica vicenda sono ancora tutte da accertare. Per il momento sappiamo che la famiglia è ancora sola e ha, purtroppo, un legame indissolubile con la città dove ha perso un figlio.
Antenne Migranti
Asgi
SOS Bozen

Ventimiglia, una porta d’Europa blindata

 

Ventimiglia, porta occidentale d’Europa. Case colorate, strade da percorrere in salita per raggiungere i giardini botanici di Harbory e poi il fiume Roia, che divide la parte alta da quella bassa della città.
Nella zona moderna  di Ventimiglia, costruita intorno al 1800,  tra ristoranti e alberghi, lungomare e corso principale, si mescolano centinaia di accenti e lingue diverse.
In estate migliaia di turisti attraversano le vie di questa cittadina popolata da circa 30 mila abitanti. A un passo da qui, la Costa Azzurra.
Il fiume Roia non traccia solo la linea di confine italo- francese, ma separa  “noi” e un “loro”.
Tra chi ha diritto di restare in Europa ed essere riconosciuto come essere umano e loro, i migranti.

 

VITE DI SCARTO
I governi occidentali hanno fallito. La globalizzazione ha fatto un buco nell’acqua quando, imponendo le leggi del libero mercato, ha accantonato il Welfare e la tutela dei beni comuni in nome degli interessi economico- finanziari.
E’ in questo sistema che si inseriscono le innumerevoli guerre legate al petrolio e il land grabbing– nuova forma di colonialismo-; responsabili degli innumerevoli spargimenti di sangue e della migrazione di milioni di vite.

Vite umane paragonate ai “rifiuti” da una Fortezza Europa capace di sbarrare le porte e di praticare un’accoglienza indegna.
Vite umane su cui vengono riversati odio, paura e insicurezza di Paesi assuefatti a una politica della legalità a tutti costi (anche se rispettare una legge significa sacrificare l’umana pietà), del terrore e del diverso inteso come unico colpevole dello sfacelo del nostro tempo.

La crisi degli Stati crea barriere e alza muri dietro cui arrancano le “vite di scarto” in fuga sulle nostre coste.
Che si scappi da una guerra, da persecuzioni politiche o si rifiutino condizioni economiche precarie, chi arriva in Italia si scontra con procedure burocratiche complesse e inadeguate.
Impronte, documenti mai ottenuti, comunicazioni scritte in italiano senza alcuna traduzione e poi di nuovo la fuga.
Il salto di una frontiera che, se riuscirà, aprirà la vita a nuove possibilità.

Vite al margine.

Mohammed, Mamadou, Omar, Ibrahima, Mustapha sono solo alcuni dei migranti a cui dalla rovente estate del 2015, quando la Francia ha deciso di abbassare le sbarre chiudendo la frontiera, qualcuno ha dato loro un nome.
Da quel momento in poi, fra sgomberi e scene di violenza, atti di generosità compiuti dal basso, Ventimiglia è diventata il punto di arrivo, e di attesa, per chi vuole uscire dall’Italia.
Solo nel 2016, qui, hanno transitato almeno 25 mila persone. Molte donne, bambini e soprattutto tanti minori che ancora oggi vengono rispediti indietro dalla Gendarmerie francese per svanire spessonel nulla.

Per molti mesi, la Chiesa delle Gianchette ha dato riparo a circa 13 mila persone.  Poi, l’ultimo “attacco”.
Lo sgombero e il trasferimento dei presenti al Parco Roia, dove la Croce Rossa gestisce il campo istituzionale creato per risolvere “l’emergenza”.
Ma il posto non c’è per tutti.

Così, lontano dagli occhi di turisti occupati a tuffarsi nella movida ligure, la riva sinistra del Fiume Roia è diventata un vero e proprio per rifugio per chi non ha trovato riparo altrove.

Letti improvvisati con sacchi a pelo, coperte, cartoni in un ambiente inospitale. I migranti cercano di trovare tepore come meglio possono: la notte è lunga e umida, vicino al letto del fiume Roia.
E deve passare, mentre si prova ad attraversare la frontiera saltando a bordo di qualche treno merci o percorrendo la lunga galleria ferroviaria al buio. Qualcuno tenta addirittura di seguire un vecchio sentiero in mezzo ai Monti. Si chiama Passo della Morte, e di tanti migranti non si è mai più avuta notizia.
Altri, invece, il giorno cercano di prendere un treno dalla stazione di Ventimiglia. Direzione Costa Azzurra. Raramente capita che riescano ad allontanarsi minimo 30 km dal confine (distanza utile per non essere rispediti indietro). La prima fermata della tratta Cote D’Azur è Menton Garavan.
La gendarmerie si prepara con manganelli e chiavistelli per aprire le porte dei bagni; sale sulle vetture e blocca i vagoni per venti minuti più o meno. Basta avere la carnagione olivastra per essere fermati: se non sei in regola, scendi giù e vieni portato alla frontiera.

All’alt non ci sono molte possibilità: o vieni rispedito in Italia, magari a piedi sotto il  sole e con 40°; oppure sei caricato su un bus. Se capiti sul pullman comincia una partita a ping- pong: da Ventimiglia a qualche hotspot; preferibilmente Taranto e poi di nuovo in giro per l’Italia senza un soldo, o rimpatriato.

C’è chi ha provato a varcare quella soglia oltre venti volte e ora, stremato, si accontenterebbe di ottenere i documenti e restare in Italia. Tra una partita a domino e un’altra a scacchi, la vita prova a procedere secondo una straordinaria normalità; mentre le otto di sera si avvicinano e alcune ong si preoccupano di offrire un pasto caldo ai ragazzi.

Scende la sera su Ventimiglia.
Un’altra notte di sogni e speranze,  muri da saltare e ponti da costruire, sta per arrivare.