Suruwa, 18 anni: nel ghetto di San Ferdinando si muore ancora

Un’altra morte annunciata nella Piana di Gioia Tauro, dove si continuano a costruire tendopoli nonostante l’alto numero di case vuote presenti sul territorio. Il corpo carbonizzato di Suruwa segue a un anno di distanza quello di Becky Moses, costretta ad abbandonare Riace perché irregolare, e quello di Soumaila Sacko, ucciso nella stessa zona da un colpo di fucile. Una tragedia senza fine i cui mandati politici sono da trovare nel ministero dell’Interno e nella politica di apartheid razziale che costringe i migranti a vivere in condizioni di marginalità assoluta al limite dell’emergenza umanitaria. (articolo pubblicato anche su: Dinamopress: Suruwa, 18 anni: Nel ghetto di San Ferdinando si muore ancora)

È successo ancora. Sabato sera un altro incendio ha infiammato il ghetto di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Nel giro di pochi minuti hanno preso fuoco otto baracche. A scatenare il rogo, probabilmente è stato un braciere lasciato accesso per combattere una nottata troppo fredda. Quando le fiamme hanno smesso di bruciare le travi in legno a sostegno di questi ripari coperti da teloni in plastica, la cenere ha restituito un corpo senza vita. Giovane. Molto giovane. È Suruwa Jaithe, un ragazzo gambiano di appena 18 anni che viveva a Gioiosa Ionica, in uno Sprar gestito da Re.Co.Sol. (Rete dei Comuni Solidali). «Non sappiamo perché si trovasse lì», ha raccontato fra le lacrime il coordinatore del progetto Giovanni Manolo in un’intervista rilasciata al Corriere della Calabria. «Adesso dovrò chiamare una madre per dirle che suo figlio è morto bruciato».

Forse Suruwa era andato in baraccopoli per trascorrere il fine settimana con qualche amico. Qualunque sia la ragione che lo abbia portato a San Ferdinando, poco importa: ognuno ha il diritto di percorrere le proprie mappe della libertà. E Suruwa ci stava riuscendo. Qualche settimana fa, Jaithe aveva partecipato a un torneo di calcetto ed era stato anche premiato. Giovedì scorso, invece, il ragazzo si era sperimentato in un laboratorio teatrale, mentre a breve avrebbe iniziato un tirocinio formativo.

 

Era. Avrebbe. Aveva. È triste dover parlare al passato di una vita finita così presto. È triste raccontare, di nuovo, che nei ghetti si muore e le speranze riposte in uno zaino in cerca di una vita migliore finiscano in cenere.

 

Non è la prima volta che le fiamme distruggono la baraccopoli. Era già accaduto nel 2017: a luglio e a dicembre. Proprio l’incendio estivo era risultato abbastanza grave. Buona parte del ghetto abitato dai nigeriani era stato divorato dalle fiammate. Non c’erano stati morti ma l’odore acre sprigionato dalla legna dopo una breve pioggia si mescolava a un clima umido e a una temperatura percepita di oltre 40°, rendendo l’aria irrespirabile. Nemmeno un mese dopo, ad agosto, alcuni migranti venivano trasferiti in una nuova tendopoli montata a soli 500 metri dai vecchi casotti.
L’ultimo incendio, terribile, si è verificato all’inizio di quest’anno. A perdere la vita era stata una ragazza nigeriana di soli 26 anni, Becky Moses; finita in quell’inferno dopo che un diniego alla richiesta di asilo non le permetteva più di restare a Riace. Anche in quel caso, i rifugi bruciati erano stati sostituiti con una trentina di tende collocate in uno spiazzo fra il ghetto e la nuova tendopoli.

CASE, NON TENDONI

Ieri mattina, mentre un gruppo di migranti protestava in corteo chiedendo dignità e giustizia per la propria vita, il Prefetto di Reggio Calabria- Michele Di Bari- convocava un vertice con il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza presso il comune di San Ferdinando. Al termine della riunione, un comunicato stampa illustrava le solite soluzioni: sgombero del ghetto e allestimento di nuove tende in un’area limitrofa.
Occorre ricordare che l’attuale accampamento di baracche da sgomberare altro non è se non la tendopoli di Stato montata nel 2012. Non è difficile trovare qualche tenda sbiadita dal sole targata “Ministero dell’Interno” o “Protezione Civile”. Tendoni costati migliaia di euro (l’ultima ha un costo superiore alle 300 mila euro) e divenuti fatiscenti non appena i fondi destinati alla manutenzione del luogo sono finiti.

Eppure una soluzione più durevole, ma soprattutto umana, sarebbe possibile. Secondo quanto riportato in un report dell’Osservatorio sul disagio abitativo in Calabria, nella Regione fra le più povere di Italia è presente il 40% degli alloggi vuoti o scarsamente utilizzati. Un’analisi della Società dei Territorialisti, invece, stima che soltanto nella Piana di Gioia Tauro ci siano 35 mila case vuote.
E di nuovo le istituzioni si apprestano al montaggio dei campi come se ci fosse stato un terremoto?

 

Ma la storia si ripete e le condizioni di vita dei braccianti vengono equiparate a una “situazione straordinaria”. Un’emergenza. Ma così non è affatto.

Fin da prima della rivolta di Rosarno, tutti gli anni,  all’apertura della stagione delle arance, a raccogliere gli agrumi e le clementine marchiate IGP nelle campagne calabresi arrivano almeno 3.500 braccianti.

Una situazione ancor più sconcertante se pensiamo che buona parte dei migranti sia in possesso di un regolare permesso di soggiorno.
Lo scorso maggio, a conclusione del progetto “Terra Ingiusta” (che ripartirà per la Piana fra qualche settimana), Medu (Medici per i Diritti Umani) ha ben descritto chi vive negli insediamenti informali della Piana, che per il 92,65%  risulta regolarmente soggiornante. Di questi il 45% ha ottenuto un permesso umanitario; il 41,4% ha presentato domanda di asilo (il 33% è ricorrente in primo o secondo grado contro una decisione negativa della Commissione Territoriale) e il 7% è titolare di protezione internazionale (asilo o sussidiaria). Per quanto riguarda la questione lavorativa invece, meno di 3 persone su 10 è in possesso di un contratto di lavoro.

 

ESSERI UMANI, NON CLANDESTINI

Chi vive nel ghetto non è soltanto il bracciante impiegato nei lavori agricoli. Come la maggior parte degli insediamenti informali, la baraccopoli di San Ferdinando rappresenta un luogo di transito. Un posto in cui si giunge quando la vita non offre nessun altra alternativa. E sarà fra i posti che “grazie” al Decreto Sicurezza approvato dal governo giallo- verde, accoglierà un numero crescente di persone.

L’abolizione della protezione umanitaria prevista dalla nuova legge porterà almeno 40 mila “irregolari” a vivere in strada. E i primi effetti si stanno vedendo proprio sul territorio calabrese.

Lo svuotamento dei centri di accoglienza dai titolari del permesso umanitario -–oggi, dunque, “clandestini”– è già stato avviato a fine ottobre nella provincia di Vibo Valentia.

 

«Si mandano ragazzi di 18 anni in mezzo alla criminalità di strada o nelle tendopoli di Stato. In nome della sicurezza», commenta Sergio Pelaia nel suo articolo  su Il Corriere della Calabria.

 

E in nome della sicurezza è stato smantellato il modello Riace, cercando capi espiatori da trasformare in accuse rivolte al sindaco Mimmo Lucano; oggi “in esilio” dalla sua città. Settimana scorsa,  Il Fatto Quotidiano ha filmato la “disfatta di Riace”. Perché Riace adesso è questo: un paese fantasma, con le strade che al mattino non si riempiono più delle grida gioiose dei bambini e delle bambine mentre vanno a scuola. Asilo ed elementari hanno dovuto chiudere per un numero insufficiente di alunni e alunne. E 80 giovani hanno perso il lavoro. In Calabria, in cui la disoccupazione giovanile tocca il 55% e negli ultimi 15 anni ben 180 mila ragazzi e ragazze hanno abbandonato la propria terra per cercare altrove un futuro migliore (dati Demoskopika, novembre 2018).  Oggi il modello Riace, a cui guardava tutto il Mondo, non esiste più. Famiglie intere sono state mandate via. Una donna, madre di tre bambini, è stata allontanata dal paese che da otto anni era diventata la sua seconda casa. Si era poi ritrovata in un centro del vibonese a dover condividere una stanza con altre persone. Giustamente, non aveva la minima intenzione di subire quel trattamento ma se rifiuterà la nuova collocazione, non avrà diritto a ottenere i documenti necessari per restare in Italia.

E, sempre in Calabria, durante lo scorso fine settimana, dal Cara di Crotone sono state espulse 26 persone. Fra loro si trovavano una donna incinta e una pericolosa“irregolare” di appena sei mesi.

Quale sicurezza potrà mai portare un decreto improntato ad alimentare le marginalità sociali?

Quanti Suruwa, Becky e Sacko, invece morto per alcuni colpi di pistola mentre cercava delle lamiere con cui costruire la sua casa nel ghetto, dovremo ancora contare?

Quante volte dovremo narrare ancora, con le lacrime agli occhi, queste morti di Stato?

Perché la morte di Suruwa non deve essere vana. Non più. E non possiamo restare indifferenti davanti a disumani provvedimenti rivolti a chi viene considerato come una “vita di scarto”. Perché nessun essere umano è illegale. Nessun essere umano dovrebbe essere “un ultimo fra gli ultimi”.

La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli Invisibili

(Trovate questo articolo anche su:  https://www.dinamopress.it/news/la-pacchia-finita-sacko-29-anni-fucilato-nella-piana-degli-invisibili)

Due, tre, quattro colpi di arma da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre veloce fra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, c’è la vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando- in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.

Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È Sacko Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici (qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.

In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di 5 anni. «Soumaila Sacko era un militante dell’USB ed era un bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece, chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini. La pacchia di vivere in una baraccopoli».

Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano. Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma affondano le loro radici indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi- Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia” per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su tutto il territorio della Piana.

Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno Matteo Salvini dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81% Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo Stivale. Da Nord a Sud.

NELLA PIANA DEGLI INVISIBILI

Dopo la rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria, insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.

Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone, mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati intorno alle campagne di Taurianova e Gioia Tauro. Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos. Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e plastica prendano fuoco.

Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di Mimmo Lucano ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016 associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel comune di Rizziconi otto anni fa).

Non è sicuramente questo l’hotel a 5 stelle di cui parlano i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E, soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere sfruttati.

LA PACCHIA DI UN BRACCIANTE AFRICANO

Secondo l’ultimo rapporto di Medu (Medici per i Diritti Umani), associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”, la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece, il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).

Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23% delle persone intervistate da Medu. Il Commissario straordinario Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle braccia nere raccogliere i frutti dai rami.

A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’assistenza sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla complicata burocrazia italiana ed europea.

Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non smetteranno di ripetersi. Quanti Sacko e Becky dovremo ancora veder morire?

 

Rosarno, in fiamme il ghetto dei migranti (pubblicato su Il Manifesto)

Nella notte un incendio distrugge la baraccopoli nella piana di gioia tauro. Muore una ragazza di 26 anni originaria della Nigeria. Nel campo trovano un rifugio per dormire almeno 1000 persone. CHe non hanno piu’ nulla.

(Questo articolo è stato pubblicato oggi, 28 gennaio 2018, su Il Manifesto https://ilmanifesto.it/rosarno-in-fiamme-il-ghetto-dei-migranti/)

“A nessuno importa di noi. Io vorrei solo un lavoro e una casa. Vorrei vivere tranquillo.” Issa viene dal Ghana. Ha lo voce rotta dal pianto mentre le lacrime gli rigano il volto. Davanti a lui ci sono solo i resti della sua “casa”. “Non è possibile. Ci trattano come bestie!” ripete con rabbia Mamadou. “ Tutto questo non doveva accadere. E le istituzioni ci ignorano!”, borbotta ancora. A terra c’è solo un manto di cenere e l’atmosfera è stata avvolta da un odore acre. “Potevamo morire tutti”, bisbiglia un ragazzo senegalese di appena 20 anni.

Intorno alle due di stanotte, un incendio è divampato nel ghetto di San Ferdinando. Forse un braciere, lasciato accesso per combattere il freddo della notte, ha dato origine al rogo che in poche ore ha distrutto oltre la metà della baraccopoli. Non è la prima volta in cui le fiamme avvolgono le casupole costruite utilizzando materiale plastico e legname, ma stavolta ha perso la vita una ragazza nigeriana di soli 26 anni. Becky Moses, questo il suo nome, era arrivata qui solo un mese fa dopo essere uscita dal Progetto Sprar di Riace. “Cercheremo di darle una degna sepoltura” ha commentato il sindaco del paesino ionico Mimmo Lucano, giunto sul posto insieme a due amiche della giovane.

Foto: Avvenire. it

Otto anni sono ormai trascorsi dalla famosa giornata in cui migliaia di migranti riempivano le strade di Rosarno ribellandosi ai soprusi dei caporali. Eppure, a distanza di quasi dieci anni, nulla pare sia cambiato.
In questo periodo, circa duemila persone provenienti principalmente dall’Africa Centrale, raggiungono la Piana di Gioia Tauro per raccogliere arance e kiwi a solo venti euro al giorno. Oltre a una paga da fame, i migranti sono costretti a vivere in condizioni disumane. Chi non dorme nei casolari abbandonati nella campagne di Taurianova, un comune vicino a San Ferdinando e a Rosarno, trova rifugio nel ghetto o nella nuova tendopoli. Dopo mille promesse mai mantenute, nessuno pare voglia trovare una sistemazione reale alle migliaia di persone invece collocate secondo inutili “piani di emergenza”.
Il ghetto di San Ferdinando, fino a ieri, ha rappresentato una seconda casa per almeno mille braccianti. Un luogo infernale, dove non esistevano acqua potabile e servizi igienici. La corrente elettrica, ottenuta dai generatori, serviva a tenere accese anche le luci dei bazar. Insomma, la baraccopoli era diventata un piccolo borgo invisibile nell’indifferenza delle istituzioni. Oggi non resta che qualche baracca. La Protezione Civile ha montato qualche tenda dove stanotte dormirà chi ha visto distrutto il proprio rifugio. “E adesso come faremo?” si chiede Ahmed.
A 500 metri dalle baracche, c’è la nuova tendopoli in cui possono dormire solo 500 persone. La struttura è stata realizzata nel mese di agosto ed è dotata di un sistema di videosorveglianza. Gli ospiti, dopo essere stati identificati tramite impronte, possono accedervi solo tramite un badge. Nonostante sia in funzione da qualche mese, la struttura presenta già alcuni problemi: il servizio cucina, ad esempio, dopo la sostituzione dell’associazione inizialmente incaricata di gestire l’area, non è più entrata in funzione. “Qui fa freddo. La notte non riesco a dormire”, dice Alì. Nelle tende non esiste un impianto di riscaldamento e l’uso delle stufe fa saltare il quadro elettrico. Unica nota positiva è invece la scuola di italiano, che grazie all’accordo fra Sos Rosarno e il Comune di San Ferdinando, è aperta anche ai migranti che non risiedono all’interno del campo. Non è ovviamente una soluzione al problema abitativo che riguarda i braccianti, però. La tendopoli è stata infatti realizzata in seguito a un Protocollo Operativo firmato dalla Prefettura di Reggio Calabria con il Ministero degli Interni e altre associazioni. “Soluzione temporanea”, si legge sui documenti. Eppure, secondo un analisi elaborata dalla società dei territorialisti, solo nella Piana di Gioia Tauro ci sono almeno 35 mila appartamenti vuoti. “Sono anni che si spendono milioni do per montare tendopoli per poi abbandonarle a se stesse” si legge in un comunicato diffuso da Sos Rosarno. E conclude “eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa. Quanto tempo bisogna aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?”

Issa: dal Niger al ghetto passando per Bergamo e sognando la felicità

 

Entrata della tendopoli

Nel ghetto di San Ferdinando, a metà strada fa Gioia Tauro e Rosarno, è un giovedì mattina afoso di fine luglio. Fa caldo: la colonnina di mercurio tocca i 40° gradi e il sole picchia sulle nostre teste e su quelle dei migranti, riscaldando i tendoni firmati “Ministero dell’interno” e le baracche costruite alla meno peggio con pali in legno e coperte da teloni plastificati per evitare che filtri l’acqua piovana.

In uno di questi “alloggi”, usato come retrobottega del bazar aperto nel ghetto,  il Collettivo Mamadou di Bolzano (che dopo aver svolto attività di monitoraggio sulle condizioni sanitarie e di vita nel campo per ben due anni,  attraverso una campagna di crowfounding ha acquistato una struttura che sarà montata a inizio autunno e fungerà da ambulatorio, punto legale e scuola di italiano), dopo aver ottenuto un container adibito a studio medico, organizza il corso di alfabetizzazione per i migranti.

Quel mattino siamo in leggero ritardo e un ragazzo, in modo simpatico, ci segnala la mancanta puntualità. Sorride e gli diamo ragione. A lezione è attento, sveglio, ha voglia di imparare e per noi diventa “Issa il Bergamasco”, perchè quando domandiamo da dove venga non esita un minuto a rispondere “Bergamo”, mentre i compagni di classe ridono. Per un attimo è stato come tornare alle scuole superiori, quando ti affannavi a inventare una scusa per non essere interrogata ma oltrepassavi i limiti della credibilità.
A fine lezione mi fermo un po’ a chiacchierare con lui arrivato dal Niger sei anni fa, a maggio 2011.

All’età di sette anni suo padre lo porta a vivere con sè in Ghana affinchè studiasse bene l’inglese e potesse trovare un buon lavoro una volta concluso il suo percorso scolastico. Gli anni scorrono veloci  ma qualcosa va storto e Issa, rimasto orfano, torna in Niger e per un anno vive con la madre. Ma casa sua gli sta stretta. Capisce presto come il Niger non possa offrigli alcuna garanzia lavorativa ed esprime alla madre la voglia di viaggiare e andare via. La donna raccomanda il figlio a un pastore libico che gli offre vitto, alloggio e una paga.

Il ragazzo si trasferisce in Libia e si occupa del bestiame per almeno un anno, finchè non percepisce più lo stipendio. Un mese, due, tre. Dopo sei mesi Issa chiede il salario senza ottenere nulla. e decide di darsi da fare altrove. Comincia a fare il muratore insieme a un amico egiziano. Diventa molto bravo e nel giro di tre anni lavora in proprio.  Tutto procede secondo il verso giusto fino al 17 febbraio del 2011, giorno della morte di Gheddafi. Scoppia la prima guerra civile e Issa, a pochi giorno dall’esplosione della guerriglia, capirà quanto quel posto non sia più tanto sicuro. Un pomeriggio è in casa insieme alle altre alle altre quattro persone con cui divide l’appartamento in cui cui degli uomini armati fanno irruzione all’improvviso.
Non c’è tempo di comprende cosa stia succendendo.

Gli eventi si susseguono in pochi minuti. “Sei contento che sia morto Gheddafi?”, chiedono a uno dei presenti. Issa ricorda solo le armi. Non capisce la risposta. Tutto si consuma in un batter d’occhio: il sangue, i colpi di mitragliatrice, l’istinto che lo porta a saltare giù dalla finestra.
Corre, Issa. Corre, cade, si rialza. Qualcuno gli urla dietro qualcosa. Corre, cade, si rialza. I proiettili sfiorano il suo corpo.
Corre, cade. Resta a terra con la testa insanguinata e il ginocchio sinistro perforato da un colpo sparato da quegli uomini armati. Probabilmente pensano di averlo ucciso ma lui respira ancora.

Rimane in coma per due mesi e al suo risveglio scopre di essere stato salvato da due abitanti del luogo. In ospedale è interrogato da alcuni miitari libici, interessati a sapere perchè fosse in Libia e dove volesse andare. Il ragazzo chiede di poter tornare in Niger per riabbracciare la mamma ma è impossibile attraversare il territorio libico e varcare i confini. Viene trasferito in una città costiera e viene ospitato per circa dieci giorni in una struttura adiacente il porto.

Una fila di baracche nel ghetto

 

Destinazione Italia. 1.200 persone stipate a bordo di una nave a tre piani attraversano il Mar Mediterraneo e raggiungono le coste di Lampedusa. Poco più che ventenne, Issa si ritrova in un Paese lontano migliaia di chilometri dai suoi cari. Solo e pieno di dolori post- convalescenza. E’ trasferito a Bergamo, nuova residenza italiana per almeno un anno. Ospite di uno sprar, lavora alla realizzazione di un evento culturale di cui dice di non ricordare il nome. Terminato il periodo di proroga sull’ospitalità al centro,  va a vivere da un suo amico. Le vertigini sono passate e la ferita alla testa si è rimarginata e così Issa torna a impastare calce e cemento nella bergamasca, per poi lasciare lo Stivale alla volta della Germania.
Passa due anni vendendo i giornali porta a porta, torna a Bergamo a rinnovare i documenti e risale nuovamente in Germania.  Adesso Issa ha 30 anni e dal 2016  vive fra Napoli e Rosarno.

In Calabria ha raccolto le arance sotto lo schiaffo del caporale per 700, 800 euro al mese, lavorando dalle 7 del mattino alle 16.30 del pomeriggio. Dall’alba al tramonto nei fitti agrumeti calabresi, non riuscendo neanche a vedere la luce del sole. Si sopravvive fra la stagione degli agrumi, il razzismo e i luoghi comuni sui migranti e l’inospitale ghetto.
Nella tendopoli la vita non è facile. La pioggia caduta la notte prima ha ravvivato l’odore acre della cenere lasciata dal rogo appiccato all’altra metà del campo all’inizio del mese di Luglio.  La puzza dei teloni plastica sciolta dalle fiamme è forte, mentre i rifiuti abbandonati lungo tutto il perimetro della tendopoli formano una specie di banchina. Le condizioni igienico sanitarie del campo sono pessime. Dormire è impossibile.

Il ghetto di San Ferdinando è un luogo infernale. Creato grazie a miliardi di euro e dalla geniale idea di istituzioni capaci di affrontare questioni sociali e umanitarie come un’emergenza, oggi è una pozzanghera a cielo aperto durante i temporali e nulla, lì dentro, è riconducibile nemmeno a una prima e misera accoglienza.
A Rosarno muore l’umanità, così come svanisce ogni sentimento di pietà umana tutte le volte in cui i problemi presenti in Italia, ma soprattutto in Calabria, vengono addebitati ai migranti invece sfruttati e calpestati nella loro dignità.

Quando chiedo a Issa dove gli piacerebbe andare e cosa si aspetta dal futuro, mi risponde: “Voglio tornare a Bergamo. Qua non c’è lavoro.” Poi mi guarda, sorride e aggiunge: ” Vorrei un po’ di felicità e una vita migliore”.
Si possono mai alzare muri e recinti alla speranza? Io penso proprio di no. 

Gambarie, Aspromonte. In un hotel (non) a 5 stelle

Ormai è un mantra. Dai programmi spazzatura e pro- xenofobia (come le vetrine di Del Debbio e Belpietro mandate in onda su Rete4) alle perle di Salvini e Meloni, il ritornello è sempre lo stesso: “Gli italiani al freddo e al gelo, senza lavoro, e gli immigrati negli hotel”.
Cavallo di battaglia della Lega Nord e del resto dello scenario “politico” italiano che troppo si colloca in uno spazio temporale non ancora superato, il solito slogan viene tirato fuori a mo’ di “soluzione” alle troppe domande lasciate aperte dalle problematiche economiche e sociali di casa nostra.

Basta uscire dal circuito populista e leggere qualche rapporto presentato da Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, LasciateCientrare e per aprire gli occhi su un “sistema accoglienza” distante anni luce da quello perennemente presentato da una politica concentrata a rimarcare un “noi” e un “loro”.
Noi e loro. Noi meritevoli di qualunque diritto; loro da ricacciare nei Paesi dilaniati da disastri ambientali e climatici, guerre, carestie e una sciagura umanitaria perpetrata da anni proprio dall’Occidente- fortezza.
Noi e loro. Un binomio simile a un’alta muraglia in cemento armato alzata per separare gli uni e le altre, impedendoci di vedere oltre luoghi comuni e leggende metropolitane.

Di caviale e champagne, personal trainer e idromassaggio a Gambarie, frazione di Santo Stefano D’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, non c’è manco l’ombra.
Dopo essersi lasciati alle spalle Villa San Giovanni e la Sicilia, che viste da quassù appaiono nella loro bellezza maestosa, la visione del bel panorama finisce quasi subito. Un gruppo di case appeso a 1400 metri d’altezza sul livello del mare e 114 abitanti. La bottega in piazza vende i prodotti tipici calabresi. Ed è tutto qua: i piccoli negozi, una fontana. A destra una delle piste sciistiche e un albergo. A sinistra l’Hotel Excelsior, ribattezzato dalla cronaca locale come “l’hotel degli orrori”.
Descritto da varie “testate giornalistiche” come il luogo della rivolta dei migranti intestarditi a chiedere cibo di alta qualità e dalle mille pretese, la visita al Cas (Centro Accoglienza Straordinaria) in cui ho affiancato il Cosmi di Reggio Calabria e Lasciatecientrare nello scorso febbraio, non ha mostrato affatto un posto ospitale. A partire dai gestori della struttura, infastiditi dalla nostra presenza.
Tra la fine del 2016 e l’inizio dell’anno corrente, i cento migranti circa ospitati all’interno della struttura hanno occupato un’ala dell’albergo chiedendo che fossero rispettati i loro diritti fondamentali. Cibo, vestiti, cure mediche. Nel giro di poco tempo, ci sono state venti revoche ai cosiddetti “facinorosi”.
Fra loro era presente anche un ragazzo proveniente dal Camerun e morto solo qualche giorno fa in un letto d’ospedale a Reggio Calabria a nemmeno 30 anni. Richard, questo era il suo nome, si è ammalato di tumore al fegato e aveva bisogno di cure farmacologiche e visite di controllo a cui doversi sottoporre proprio nel capoluogo siciliano. Molte volte il suo diritto alla salute veniva calpestato, e per tale ragione aveva protestato insieme agli altri ospiti anche nel mese di gennaio 2017. Come gli altri, Richard era poi stato trasferito altrove.

I migranti, come si apprende in una nota scritta da LasciateCientrare e Cosmi, descrivono un quadro drammatico:

 “Medicinali non somministrati a chi ne avrebbe bisogno, spesso come forma umiliante e crudele di punizione per aver protestato per qualche motivo o, peggio ancora, per aver denunciato all’esterno alcune mancanze nella gestione dell’accoglienza così come realizzata dal personale dell’albergo. O ancora, i termosifoni lasciati spenti fino a qualche giorno fa, con ragazzi che lamentano dolori al petto dovuti a un freddo lancinante che avrebbe loro impedito di dormire, specie nelle notti di gelo che la Calabria ha conosciuto poche settimane fa. L’acqua corrente non sarebbe quasi mai calda, e molti ragazzi hanno raccontato di non potersi lavare da giorni. La notte, inoltre, i ragazzi verrebbero chiusi a chiave nella struttura, e qualcuno, non potendovi rientrare, ha dovuto dormire all’aperto nel mese di dicembre.” Rapporto LasciateCientrare

Concordo su quanto riportato dagli attivisti delle due reti: perchè dubitare delle testimonianze di questi giovani abbandonati ad alta quota, in mezzo alla neve e lontani da qualunque tipo di socialità? Reggio Calabria dista 30 chilometri e i collegamenti, a quanto pare e come ben sappiamo, non sono dei migliori.
Si legge sempre nella stessa nota:

Ma è il clima generale della struttura, incentrato su una forsennata caccia alle streghe – alias i migranti che denunciano o criticano le pessime condizioni della gestione del centro – a preoccuparci e a imporci di vigilare in maniera continua sullo stato effettivo dell’accoglienza nel nostro territorio, a Gambarie non solo. Troviamo inaccettabile che i responsabili di una struttura deputata all’accoglienza dei migranti, e che per questo motivo riceve finanziamenti pubblici importanti, governi la situazione col terrore, dato che molti ragazzi anche in occasione della nostra visita avevano paura di essere visti o addirittura fotografati nel momento in cui parlavano con noi. Ancora più incredibile è che da più un mese non siano stati affidati ufficialmente ad una cooperativa (che subentri alla vecchia, attiva a Gambarie fino al 31 dicembre scorso) servizi essenziali quali ad esempio l’assistenza legale e sanitaria, le attività educative, la mediazione culturale.

Dov’è il reale senso di accoglienza se sulla pelle dei migranti continua a esserci un grosso business? E’ doveroso ricordare quanto i 35 euro tanto decantati a guadagno dei migranti stessi (peccato come nella maggior parte dei casi non abbiano manco un centesimo in tasca), finiscano direttamente nelle casse di alberghi ed enti vari.
Scriveva Bauman nel suo saggio “Vite di scarto”: <<I ghetti, con o senza nome, sono istituzioni antiche. Sono serviti alla «stratificazione composita» (e anche, in un sol colpo, alla «deprivazione multipla»), sovrapponendo differenziazione sovrapposta per casta o per classe e separazione ter-ritoriale. I ghetti possono essere volontari o involontari (benché soltanto questi ultimi tendano a recare su di sé il marchio infamante del nome), e la principale differenza fra i due tipi è da quale parte del «confine asimmetrico» siano rivolti, cioè verso gli ostacoli ammonticchiati all’ingresso o all’uscita del territorio del ghetto.>>

Come possiamo parlare di una società multiculturale armoniosa, se chi arriva in Italia si sentirà sempre escluso e chiuso in quella bolla etichettata, appunto, come “loro” e rinchiuso in contrade, piccoli paesi, borghi semi abbandonati senza poter interagire con altre persone?
Eppure sarebbe semplice abbattere certe barriere e tendere una mano troppe volte trattenuta per un’assurda paura del “diverso”. Basterebbe arrampicarsi sulle reti di protezione e allungare il collo per comprendere quanto le suite extra lusso e i centri benessere di cui godrebbero “gli invasori” siano una marea di frottole montate ad hoc per raccattare voti e distrarci da altre preoccupazioni ben più reali. E urgenti, soprattutto.