La pacchia è finita. Sacko, 29 anni, fucilato nella Piana degli Invisibili

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Due, tre, quattro colpi di arma da fuoco squarciano il silenzio in cui è avvolta la campagna di San Calogero, vicino Vibo Valentia. A poca distanza dalla Statale18, che scorre veloce fra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, c’è la vecchia fornace di contrada Tranquilla. Lo scorso sabato sera tre giovani africani, a piedi, arrivano qui dalla loro “casa”- il ghetto di San Ferdinando- in cerca di alcune lamiere per costruire una baracca. Dopo l’incendio dello scorso gennaio, quando a perdere la vita nel rogo fu una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, si cerca di evitare la plastica.

Due, tre, quattro spari vengono esplosi da un uomo bianco a bordo di una fiat panda. Uno dei tre resta illeso e scappa a dare l’allarme non appena vede il suo amico ferito e il terzo steso a terra. Immobile. È Sacko Soumaila, 29 anni. Colpito alla testa da una delle fucilate, morirà all’ospedale di Reggio Calabria qualche ora più tardi. L’assassino, forse appostato a fare da guardiano a un’area posta sotto sequestro su cui tempo fa vennero rivenute diverse tonnellate di rifiuti tossici (qui la ricostruzione della vicenda), sparisce.

In Mali, il suo Paese di origine, Soumaila lascia la compagna e una bimba di 5 anni. «Soumaila Sacko era un militante dell’USB ed era un bracciante agricolo della Piana di Rosarno/Gioia Tauro» – si legge nel comunicato diffuso dall’associazione SoS Rosarno, da sempre al fianco dei migranti della Piana – «terra delle buonissime clementine I.G.P. di Calabria, fiore all’occhiello del nostro Made in Italy, che il nuovo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, preannuncia di voler difendere e a cui noi, invece, chiediamo esplicitamente di impedire che continui a essere macchiato con il sangue delle migliaia di braccianti che raccolgono la frutta. Sicuramente, per Sacko è finita la “pacchia” di cui parla il neo- Ministro all’Interno Salvini. La pacchia di vivere in una baraccopoli».

Sacko non era un ladro. Una lamiera non vale una vita e, forse, se il suo colore della pelle non fosse stato nero, chi ha sparato lo avrebbe fatto puntando il fucile in aria. «Soumaila è l’ennesima tragedia annunciata, vittima di politiche che trasudano razzismo e discriminazione verso i migranti e che hanno sdoganato le pulsioni più violente e bestiali dell’essere umano. Politiche che non sono di oggi, né di ieri, ma affondano le loro radici indietro nel tempo, con le varie leggi Turco- Napolitiano e Bossi- Fini. Politiche di cui sono responsabili anche quelli che oggi si stracciano le vesti e accusano di razzismo i nuovi arrivati, a cui invece hanno preparato quel terreno fertile nel quale oggi sguazzano», si legge ancora nel documento che ha convocato la manifestazione che ieri, davanti al comune di San Ferdinando, ha portato in piazza centinaia di migranti. “Verità e giustizia” per un fratello ammazzato e una soluzione abitativa dignitosa per le 4mila persone impegnate ogni anno nella raccolta degli agrumi, di olive e dei kiwi su tutto il territorio della Piana.

Qual è la “pacchia” di un migrante? Mentre il giovane maliano andava incontro alla morte, il nuovo Ministro dell’interno Matteo Salvini dichiarava di voler “tagliare” i fondi per l’accoglienza e l’integrazione. In un altro video circolato negli ultimi giorni e girato a Catanzaro, dove la Lega Nord alle ultime elezioni ha ottenuto il 6% delle preferenze e due seggi (il 13,81% Salvini lo ha avuto solo a Rosarno), il Ministro definiva Mimmo Lucano, sindaco di Riace, “uno zero”. Lo “zero”, però, la nullità, è il feroce attacco sferrato al modello Riace e a tutte le realtà impegnate a costruire un’Italia, una Calabria solidale, diversa. “Zero”, purtroppo, è chi ignora le pessime condizioni di vita e di lavoro a cui i braccianti sono costretti nelle nostre campagne e, a fini propagandistici, ha trasformato i migranti in un “capro espiatorio” per i problemi economici e sociali che da anni attanagliano lo Stivale. Da Nord a Sud.

NELLA PIANA DEGLI INVISIBILI

Dopo la rivolta di Rosarno del 2010 la Regione Calabria, insieme ad altri enti e istituzioni, ha costruito una “tendoopoli” nell’area industriale di San Ferdinando, a qualche chilometro da Rosarno. «È una situazione transitoria», dichiareranno più volte i vari prefetti, sindaci e Presidenti della Regione intervistati. A distanza di quattro anni dall’impianto delle prime tende, il ghetto si è disfatto e riformato per ben quattro volte.

Durante la stagione delle arance, qui dentro vivono almeno 2.500 persone, mentre altri braccianti risiedono in casolari, spesso fatiscenti, abbandonati intorno alle campagne di Taurianova e Gioia Tauro. Nella baraccopoli ci sono dei bazar e una moschea. Non esiste la corrente elettrica e non c’è acqua. Con alcuni generatori si cerca di avere l’elettricità e l’acqua, presa dall’esterno, viene conservata dentro i silos. Durante le fredde giornate invernali, specie nelle ore notturne, i migranti cercano di scaldarsi usando dei bracieri. Capita, però, come oltre ai corti circuiti, le braci possano essere dimenticate e così quei ripari in legno e plastica prendano fuoco.

Come è accaduto lo scorso 26 gennaio, quando da una delle tende del “lato dei Nigeriani” è divampato un rogo che ha distrutto mezzo ghetto. Una ragazza è deceduta e solo la scorsa settimana, quello “zero” di Mimmo Lucano ha reso possibile il funerale e il rimpatrio in Nigeria. Per gli altri sopravvissuti senza un tetto, invece, sempre in “stile emergenziale”, la Protezione Civile ha montato una cinquantina di tende fra la baraccopoli e il perimetro su cui dal mese di agosto del 2017 è stata attivata la nuova tendopoli. 550 tendoni video-sorvegliati e in cui è possibile accedere solo tramite badge, con un orario di entrata e di uscita. Sebbene all’interno del nuovo campo non ci sia spazzatura e siano presenti i servizi igienici, la luce e l’acqua, non è sicuramente un “sistema di accoglienza” dignitoso. E resta soprattutto una domanda aperta. Quando i fondi per la gestione della tendopoli finiranno, sarà la volta dell’ennesimo ghetto? Che fine faranno i migranti e le migranti che attualmente vi risiedono? Nel mese di febbraio del 2016 associazioni, enti e istituzioni siglarono un Protocollo in cui la tendopoli veniva indicata come “soluzione temporanea” (l’ennesima) a cui poi sarebbe dovuto seguire un “piano casa”. A distanza di due anni, non c’è traccia di alcun progetto di accoglienza diffusa (eccetto l’esperienza di Drosi, nata nel comune di Rizziconi otto anni fa).

Non è sicuramente questo l’hotel a 5 stelle di cui parlano i razzisti di casa nostra. Il ghetto e la nuova tendopoli, insieme alle altre decine di insediamenti informali sparsi nelle zone limitrofe a Gioia Tauro e Rosarno, si collocano in punti molto distanti dai centri abitati. Luoghi da raggiungere percorrendo strade dissestate e non illuminate, attraversate giorno e notte dai braccianti che raggiungono i campi in sella a bici senza luci o a piedi. A otto anni dalle giornate di protesta che infuocarono quel mese di gennaio del 2010, quasi nulla è cambiato. C’è ancora chi gioca al tiro al bersaglio investendo con le auto i migranti o prendendoli a bastonate. E, soprattutto, in mezzo agli alberi di arance e mandarini si continua a essere sfruttati.

LA PACCHIA DI UN BRACCIANTE AFRICANO

Secondo l’ultimo rapporto di Medu (Medici per i Diritti Umani), associazione presente sul territorio calabrese con il progetto “Terragiusta”, la paga di un bracciante può essere a cottimo o a giornata. Nel primo caso, un migrante non guadagna più di tre euro all’ora: la cassetta di mandarini viene pagata un euro; quella di arance 0,50 centesimi. Nella seconda ipotesi, invece, il guadagno giornaliero ammonta sui 25 euro o poco più. Nei campi si lavora dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio: 9 ore. L’orario di lavoro previsto dalla CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti, invece, è stabilito a 6 ore e mezza al dì. Nonostante il 92,65% dei lavoratori sia titolare di un regolare permesso di soggiorno (il 45% ha un permesso per motivi umanitari e il restante 41,4% è richiedente asilo), meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto (27,82%).

Circa l’88,24% non vede dichiarate dal datore di lavoro tutte le giornate lavorative effettivamente svolte. Oltre il 63% dei braccianti non conosce la possibilità di ottenere una disoccupazione agricola, percepita solo dall’1,23% delle persone intervistate da Medu. Il Commissario straordinario Polichetti ha fornito dei dati che evidenziano in modo chiaro il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, facilitato dall’emarginazione sociale a cui i migranti sono costretti vivendo nei ghetti. Ossia: su 21 mila contratti di lavoro stipulati nel 2017, solo 5mila risultano essere stati rilasciati a lavoratori stranieri. Eppure, in mezzo agli aranceti si vedono solo delle braccia nere raccogliere i frutti dai rami.

A questo drammatico quadro, poi, si aggiungono le difficoltà legate all’assistenza sanitaria e agli ostacoli da superare per ottenere i documenti necessari per vivere serenamente sul territorio italiano e piantati dalla complicata burocrazia italiana ed europea.

Trattare la “questione migranti” come un’emergenza significa impedire a questi lavoratori di poter vivere in una casa, significa produrre il clima sociale in cui rischiano continuamente la propria vita, significa rappresentarli come soggetti pericolosi per emarginarli e sfruttarli meglio. In questa situazione, epidosi terribili come quello dell’atro giorno non smetteranno di ripetersi. Quanti Sacko e Becky dovremo ancora veder morire?

 

Rosarno, in fiamme il ghetto dei migranti (pubblicato su Il Manifesto)

Nella notte un incendio distrugge la baraccopoli nella piana di gioia tauro. Muore una ragazza di 26 anni originaria della Nigeria. Nel campo trovano un rifugio per dormire almeno 1000 persone. CHe non hanno piu’ nulla.

(Questo articolo è stato pubblicato oggi, 28 gennaio 2018, su Il Manifesto https://ilmanifesto.it/rosarno-in-fiamme-il-ghetto-dei-migranti/)

“A nessuno importa di noi. Io vorrei solo un lavoro e una casa. Vorrei vivere tranquillo.” Issa viene dal Ghana. Ha lo voce rotta dal pianto mentre le lacrime gli rigano il volto. Davanti a lui ci sono solo i resti della sua “casa”. “Non è possibile. Ci trattano come bestie!” ripete con rabbia Mamadou. “ Tutto questo non doveva accadere. E le istituzioni ci ignorano!”, borbotta ancora. A terra c’è solo un manto di cenere e l’atmosfera è stata avvolta da un odore acre. “Potevamo morire tutti”, bisbiglia un ragazzo senegalese di appena 20 anni.

Intorno alle due di stanotte, un incendio è divampato nel ghetto di San Ferdinando. Forse un braciere, lasciato accesso per combattere il freddo della notte, ha dato origine al rogo che in poche ore ha distrutto oltre la metà della baraccopoli. Non è la prima volta in cui le fiamme avvolgono le casupole costruite utilizzando materiale plastico e legname, ma stavolta ha perso la vita una ragazza nigeriana di soli 26 anni. Becky Moses, questo il suo nome, era arrivata qui solo un mese fa dopo essere uscita dal Progetto Sprar di Riace. “Cercheremo di darle una degna sepoltura” ha commentato il sindaco del paesino ionico Mimmo Lucano, giunto sul posto insieme a due amiche della giovane.

Foto: Avvenire. it

Otto anni sono ormai trascorsi dalla famosa giornata in cui migliaia di migranti riempivano le strade di Rosarno ribellandosi ai soprusi dei caporali. Eppure, a distanza di quasi dieci anni, nulla pare sia cambiato.
In questo periodo, circa duemila persone provenienti principalmente dall’Africa Centrale, raggiungono la Piana di Gioia Tauro per raccogliere arance e kiwi a solo venti euro al giorno. Oltre a una paga da fame, i migranti sono costretti a vivere in condizioni disumane. Chi non dorme nei casolari abbandonati nella campagne di Taurianova, un comune vicino a San Ferdinando e a Rosarno, trova rifugio nel ghetto o nella nuova tendopoli. Dopo mille promesse mai mantenute, nessuno pare voglia trovare una sistemazione reale alle migliaia di persone invece collocate secondo inutili “piani di emergenza”.
Il ghetto di San Ferdinando, fino a ieri, ha rappresentato una seconda casa per almeno mille braccianti. Un luogo infernale, dove non esistevano acqua potabile e servizi igienici. La corrente elettrica, ottenuta dai generatori, serviva a tenere accese anche le luci dei bazar. Insomma, la baraccopoli era diventata un piccolo borgo invisibile nell’indifferenza delle istituzioni. Oggi non resta che qualche baracca. La Protezione Civile ha montato qualche tenda dove stanotte dormirà chi ha visto distrutto il proprio rifugio. “E adesso come faremo?” si chiede Ahmed.
A 500 metri dalle baracche, c’è la nuova tendopoli in cui possono dormire solo 500 persone. La struttura è stata realizzata nel mese di agosto ed è dotata di un sistema di videosorveglianza. Gli ospiti, dopo essere stati identificati tramite impronte, possono accedervi solo tramite un badge. Nonostante sia in funzione da qualche mese, la struttura presenta già alcuni problemi: il servizio cucina, ad esempio, dopo la sostituzione dell’associazione inizialmente incaricata di gestire l’area, non è più entrata in funzione. “Qui fa freddo. La notte non riesco a dormire”, dice Alì. Nelle tende non esiste un impianto di riscaldamento e l’uso delle stufe fa saltare il quadro elettrico. Unica nota positiva è invece la scuola di italiano, che grazie all’accordo fra Sos Rosarno e il Comune di San Ferdinando, è aperta anche ai migranti che non risiedono all’interno del campo. Non è ovviamente una soluzione al problema abitativo che riguarda i braccianti, però. La tendopoli è stata infatti realizzata in seguito a un Protocollo Operativo firmato dalla Prefettura di Reggio Calabria con il Ministero degli Interni e altre associazioni. “Soluzione temporanea”, si legge sui documenti. Eppure, secondo un analisi elaborata dalla società dei territorialisti, solo nella Piana di Gioia Tauro ci sono almeno 35 mila appartamenti vuoti. “Sono anni che si spendono milioni do per montare tendopoli per poi abbandonarle a se stesse” si legge in un comunicato diffuso da Sos Rosarno. E conclude “eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa. Quanto tempo bisogna aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?”

Taranto. Alla frontiera dell’hotspot

Breve report da Taranto, dove i cui i migranti vengono identificati e poi rimandati in altre zone del Bel Paese. 

Il sole splende alto e soffia una fresca brezza marina su Taranto. Fa caldo in questa giornata di aprile e le barche ancorate al porto, l’acqua apparentemente cristallina, rendono meno lontani i giorni che mancano all’inizio dell’estate. Taranto, quasi da cartolina: il porto, i viali ordinati e i palazzi eleganti della città nuova.
Taranto, quasi da fotografia: la città vecchia costruita su un’isola collegata da un ponte girevole alla terraferma. Pare che il tempo si sia fermato fra le mura del centro storico. Poco distante dalla piazza principale, sul lungomare i pescatori raccolgono le reti.

Fra i vicoli di questo borgo antico si gira accompagnati dal sottofondo di un continuo vociare mentre si passa accanto a chiese, palazzi d’epoca, reperti archeologici. Ogni cosa racconta l’importanza di quella che fu la capitale della Magna Grecia. Un continuo contrasto attraversa la città vecchia: a fianco a tanta bellezza storica, il decadimento e l’abbandono mostrato da abitazioni disabitate e strutture murate, chiuse, a pezzi.
E poi Piazza Fontana coi bar, i ristoranti e un gruppo di bambini che vendono palme intrecciate per la Settimana Santa. Uno di loro mi viene incontro trotterellando “Compri una palma? Costa un euro. Domenica c’è la Messa delle Palme.” Gli faccio una carezza sulla testa e mi prende per un braccio portandomi dai cugini e dalle amiche. E’ un gruppo di bambini tra i 6 e i 10 anni. Mi riempiono di domande e mi raccontano cosa fanno nelle loro giornate, quando a un certo punto una di loro dice: “Lo sai che Taranto è come Napoli? Noi siamo come i bambini napoletani.”
In quelle parole lo scatto a un’Italia che corre a due velocità.

Da questo punto del piazzale alle spalle delle barche attraccate, della tangenziale, delle case in lontananza, si levano al cielo colonne altissime e fumanti. Blu, come il colore del firmamento che fa da coperta a questa città spaccata a metà. E’ il cielo dell’Ilva.
Il Rione Tamburi, o “I Tamburi”, non dista molto dalla stazione dei treni e degli autobus, collocandosi a una manciata di chilometri dal colosso siderurgico. Pare che un mantello di ruggine abbia ricoperto l’intero quartiere. Un velo rosso porpora ricopre il campetto da calcio, l’asfalto, le facciate delle abitazioni, la terra. Alcune case sono state dipinte della stessa tonalità “regalata” dalle polveri dei minerali e dei veleni buttati fuori dalla pancia della fabbrica.
Una nube tossica, invisibile,che fa nascere bambine e bambini già ammalati di cancro e causa del raddoppiato numero di persone malate di tumore rispetto a dieci anni fa.
Su un muro qualcuno ha scritto “Riva boia”.

E immediatamente mi tornano in mente gli scioperi, gli operai arrampicati sui silos, uno striscione steso a sventolare fuori dall’ex industria tessile del mio paese: “I morti Marlane chiedono giustizia”. Poi l’elenco di 108 morti bianche rimaste senza giustizia. “Il fatto non sussiste”, dichiarò il giudice alla termine del processo di primo grado.
Quei bambini hanno ragione: Taranto non è solo come Napoli ma è simile a qualunque altra città del Sud Italia. Sfruttata e calpestata da industriali venerati come benefattori giunti dal Nord a gettare un’ancora di salvezza a chi per anni ha sofferto la fame e lo sfruttamento nelle campagne o le faticate battute di pesca in mezzo al mare in burrasca. Quegli stessi signorotti decisi a chiudere e a trasferire le stesse industrie in Paesi poveri, pagando la manodopera meno di un caffè. La fine dell’illusoria “rivoluzione industriale del Tirreno Cosentino”, il crollo del sogno della Torino del Sud alla chiusura della Pertusola Sud di Crotone , l’Eni di Viggiano (Potenza) e anche Taranto descrivono un dramma nel dramma. Il conflitto interiore dei disoccupati. Quanto è stato enorme l’inganno di chi ti aveva assunto con un “posto fisso”, finendo a distruggere l’ambiente circostante ma soprattutto, dopo averti costretto a lavorare in pessime condizioni (gli operai della Marlane ricordano ancora quando nei reparti aspiravano i fumi delle tinture per le stoffe coi loro stessi polmoni: niente impianto di aspirazione. Bisogna pur sempre risparmiare in tempi di crisi, no?)? Ora, dopo essersi appropriato delle tua vita e lasciando devastazione, se ne andava lasciando attorno a te solo disoccupazione.
Senza un lavoro è ripresa una nuova ondata di emigrazione. Oltre il danno, la beffa: la carente rete sanitaria e la mancanza di uno stipendio hanno reso difficile curare le malattie regalate tra i fumi tossici e gli scarti industriali.
Ma i racconti operai di un Sud distrutto (e non solo, purtroppo) appartengono a un capitolo a parte e non basterebbe un libro per analizzare i complessi legami intrecciati fra miseria, interessi dei forti e il tallone di ferro schiacciato sui più deboli.
Torniamo in mezzo al rosso delle polveri dell’Ilva, dei pozzi petroliferi delle raffinerie dell’Eni, dove fra il porto mercantile Varco Nord e la tangenziale, in un deserto di capannoni abbandonati e fra le difficoltà sociali ed economiche di una città che comunque non mostra affatto, e per fortuna, la scia dell’ondata xenofoba che da troppo tempo avvolge il nostro tempo, ci sono tendoni bianchi e un recinto. Benvenuti all’hotspot di Taranto, la nuova geniale idea della Fortezza Europa.

Ma partiamo dalle origini: che cos’è l’hotspot? Per far fronte alle richieste di asilo l’Ue, in accordo con l’Agenzia Frontex (agenzia europea gestione frontiere), l’EASO (ufficio europeo di sostegno per l’asilo), l’Europool (agenzia cooperazione delle forze di polizia) e l’Eurojust (agenzia europea cooperazione giudiziaria), nel 2015, avvia questi primi punti in cui le persone giunte sulle nostre coste vengono identificate, registrate e rilevate con le impronte digitali fra le 48 e le 72 ore. Lampedusa è stato l’hotspot satellite a cui si aggiungono Augusta, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle e, appunto, Taranto. Chi rifiuta di sottoporsi alle procedure seguite anche dalla polizia italiana e da altri operatori del settore dell’accoglienza, finisce dritto dritto nei nuovi centri di detenzione per l’espatrio (prima si trattava dei Cie, modificati dal decreto Minniti- Orlando).
Per quattro giorni, insieme a volontari e attiviste dell’associazione Stamp, ho partecipato alle attività di monitoraggio su uno dei punti caldi per l'(in)accoglienza all’italiana riservata a rifugiati e richiedenti asilo. Nei pressi della stazione ferroviaria è stato allestito un info- point con wi fii gratuito, mediazione linguistica, assitenza legale. Nel giro di pochi giorni abbiamo conosciuto molti ragazzi provenienti principalmente dall’Africa, a cui abbiamo dato quelle informazioni scarse o mancanti. Spesso neanche ventenni, gli ospiti dell’hotspot sono stati rastrellati a Ventimiglia o Como e, caricati su un autobus, portati a Taranto. Solo nel 2016, qui hanno transitato oltre 6000 persone.
Gambia, Mali, Isole Comore, Senegal, Nigeria, Guinea, Bangladesh: ognuno di loro portava con sè una storia e negli occhi aveva tutta la paura e la speranza racchiusa per avere una vita migliore.
Dopo aver oltrepassato l’inferno delle carceri libiche e i viaggi sui gommoni, ora si trovavano in una “cella” vista mare da cui potevano uscire vagando senza una direzione ben precisa.
A parte il tappeto rosso dei veleni made in Ilva, intorno all’hotspot esiste il nulla. Una strada deserta che poco più sopra si unisce allo svincolo della tangenziale; la stessa attraversata dai migranti per arrivare in città. Qualcuno stringe in mano un foglio di carta. E’ un “Biglietto di invito” a presentarsi nella questura indicata dalla prefettura di Taranto entro 72 ore dalla notifica. Un breve testo, scritto interamente in italiano,  riporta le generalità del migrante e indica le varie mete da dover raggiungere: da Milano a Cremona, Bergamo, Torino, Bologna, Crotone, Reggio Calabria.
E qui il meccanismo hotspot, e accoglienza in generale, si inceppa peggio di quanto non abbia fatto prima. I migranti, sballottati come un pallina da ping pong da Nord a Sud senza sapere a quale destino vadano incontro, in tasca non hanno un centesimo ma devono assolutamente presentarsi sul posto di polizia indicato; pena la multa di oltre 200 euro o l’arresto fino a tre mesi. Ma come si arriva in Calabria, se nonostante in linea d’aria disti una manciata di chilometri dal territorio pugliese, i treni viaggiano su un unico binario e il percorso diventa una corsa a ostacoli bus- treno- bus e si impiegano anche otto ore? Come si raggiunge una qualunque destinazione del Nord Italia, se da Taranto ci vuole quasi una giornata? E soprattutto, problema principale, in quale modo i migranti possono pagare il biglietto di Trenitalia o di una compagnia di autobus se non hanno soldi a disposizione? E’ vero, si può sempre tentare la fortuna salendo su un qualsiasi vagone e sperare che il controllore non arrivi o ti lasci scendere a destinazione. Ma così non va, è evidente.

A maggior ragione quando su parecchi di questi “inviti” è impresso a penna  “non entra”. Tradotto: non c’è posto. Arrangiati a trascorrere la notte e il resto del tempo in qualche maniera. La mancata disponibilità di posti prevista per chi ha presentato la richiesta di asilo nella questura del posto che poi ha lasciato, è oggetto di espulsione o non può/ vuole richiedere la protezione abbandona i migranti a loro stessi, rendendoli vulnerabili a situazioni di estremo rischio: dall’arruolamento sotto il caporalato alla criminalità organizzata. La disperazione per aver perduto tutto e la preoccupazione di “essere solo un numero, un illegale” porterebbe chiunque di noi, in quelle condizioni, ad accettare patti in condizioni di vita ottimali impensabili.
Quel “non entra”, per esempio, è toccato anche a due donne delle Isole Comore; incontrate in un caldo pomeriggio. Le due ragazze sono arrivate sul piazzale della stazione in lacrime. Non capivano nulla di cosa stesse accadendo e, oltre alla loro lingua, spiaccicavano solo qualche parola di francese. Destinazione Bologna, che avrebbero raggiunto alle 4. 30 del mattino successivo. Un orario poco sicuro specie per quanto riguarda due donne migranti, e non in relazione al fatto che fossero sole (banalmente non lo erano.. erano in due!) o appartenenti al sesso debole ma  perchè, in un contesto sconosciuto e linguisticamente incomprensibile,  facilmente possono essere attirate nella trappola della tratta. Dopo innumerevoli sforzi, finalmente si trova il modo di comunicare con loro e in serata potranno alloggiare in un dormitorio. Sembrava tutto perfetto, se non fosse stato che all’improvviso le perdiamo di vista. Inizia la nostra affannata ricerca e ci porta fino all’autostazione, dove le troviamo in compagnia di altre persone. Affermando di dover seguire un ipotetico “mon frère” con la promessa che le avrebbe accompagnate in Francia. Proprio per varcare il confine italiano, le due donne vengono prelevate da Ventimiglia per sparire in mentre ci giriamo per un momento, un’altra volta, in un buco nero. Senza forze per il carico di delusione e impotenza davanti all’evidenza che nulla avremmo potuto fare, ce ne andiamo con tanta rabbia.

E’ questa la sicurezza offerta dallo Stato italiano e dall’Europa intera, mentre creano staccionate e alzano muri?
Ricordo un ragazzo del Gambia dirmi “Calabria no good. No food. No good”. Quando ho letto dell’operazione Johnny, in cui si è scoperto che il CARA di Crotone è stato amministrato da ‘Ndragheta e istituzioni colluse, ho capito cosa significasse quel “no good”. E questo il sistema di accoglienza da criticare, non le 35 euro al giorno e i fantomatici hotel a 5 stelle allestiti come alloggio per chi scappa da guerre e povertà, ma in realtà montati ad hoc per nascondere nefandezze e imbrogli di chi sta facendo dell’accoglienza e dei viaggi della speranza solo un enorme, grande business. Accogliere non equivale a ghettizzare chi scappa da guerra e fame in luoghi distanti da ritrovi sociali. Non si può far finta di non vedere.
Non è questa l’Italia sognata, nè da loro nè da noi se manteniamo ancora un minimo senso di solidarietà. Ed è forse il momento di chiedere rispetto per altri esseri umani. Proprio come noi.