Gambarie, Aspromonte. In un hotel (non) a 5 stelle

Ormai è un mantra. Dai programmi spazzatura e pro- xenofobia (come le vetrine di Del Debbio e Belpietro mandate in onda su Rete4) alle perle di Salvini e Meloni, il ritornello è sempre lo stesso: “Gli italiani al freddo e al gelo, senza lavoro, e gli immigrati negli hotel”.
Cavallo di battaglia della Lega Nord e del resto dello scenario “politico” italiano che troppo si colloca in uno spazio temporale non ancora superato, il solito slogan viene tirato fuori a mo’ di “soluzione” alle troppe domande lasciate aperte dalle problematiche economiche e sociali di casa nostra.

Basta uscire dal circuito populista e leggere qualche rapporto presentato da Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, LasciateCientrare e per aprire gli occhi su un “sistema accoglienza” distante anni luce da quello perennemente presentato da una politica concentrata a rimarcare un “noi” e un “loro”.
Noi e loro. Noi meritevoli di qualunque diritto; loro da ricacciare nei Paesi dilaniati da disastri ambientali e climatici, guerre, carestie e una sciagura umanitaria perpetrata da anni proprio dall’Occidente- fortezza.
Noi e loro. Un binomio simile a un’alta muraglia in cemento armato alzata per separare gli uni e le altre, impedendoci di vedere oltre luoghi comuni e leggende metropolitane.

Di caviale e champagne, personal trainer e idromassaggio a Gambarie, frazione di Santo Stefano D’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, non c’è manco l’ombra.
Dopo essersi lasciati alle spalle Villa San Giovanni e la Sicilia, che viste da quassù appaiono nella loro bellezza maestosa, la visione del bel panorama finisce quasi subito. Un gruppo di case appeso a 1400 metri d’altezza sul livello del mare e 114 abitanti. La bottega in piazza vende i prodotti tipici calabresi. Ed è tutto qua: i piccoli negozi, una fontana. A destra una delle piste sciistiche e un albergo. A sinistra l’Hotel Excelsior, ribattezzato dalla cronaca locale come “l’hotel degli orrori”.
Descritto da varie “testate giornalistiche” come il luogo della rivolta dei migranti intestarditi a chiedere cibo di alta qualità e dalle mille pretese, la visita al Cas (Centro Accoglienza Straordinaria) in cui ho affiancato il Cosmi di Reggio Calabria e Lasciatecientrare nello scorso febbraio, non ha mostrato affatto un posto ospitale. A partire dai gestori della struttura, infastiditi dalla nostra presenza.
Tra la fine del 2016 e l’inizio dell’anno corrente, i cento migranti circa ospitati all’interno della struttura hanno occupato un’ala dell’albergo chiedendo che fossero rispettati i loro diritti fondamentali. Cibo, vestiti, cure mediche. Nel giro di poco tempo, ci sono state venti revoche ai cosiddetti “facinorosi”.
Fra loro era presente anche un ragazzo proveniente dal Camerun e morto solo qualche giorno fa in un letto d’ospedale a Reggio Calabria a nemmeno 30 anni. Richard, questo era il suo nome, si è ammalato di tumore al fegato e aveva bisogno di cure farmacologiche e visite di controllo a cui doversi sottoporre proprio nel capoluogo siciliano. Molte volte il suo diritto alla salute veniva calpestato, e per tale ragione aveva protestato insieme agli altri ospiti anche nel mese di gennaio 2017. Come gli altri, Richard era poi stato trasferito altrove.

I migranti, come si apprende in una nota scritta da LasciateCientrare e Cosmi, descrivono un quadro drammatico:

 “Medicinali non somministrati a chi ne avrebbe bisogno, spesso come forma umiliante e crudele di punizione per aver protestato per qualche motivo o, peggio ancora, per aver denunciato all’esterno alcune mancanze nella gestione dell’accoglienza così come realizzata dal personale dell’albergo. O ancora, i termosifoni lasciati spenti fino a qualche giorno fa, con ragazzi che lamentano dolori al petto dovuti a un freddo lancinante che avrebbe loro impedito di dormire, specie nelle notti di gelo che la Calabria ha conosciuto poche settimane fa. L’acqua corrente non sarebbe quasi mai calda, e molti ragazzi hanno raccontato di non potersi lavare da giorni. La notte, inoltre, i ragazzi verrebbero chiusi a chiave nella struttura, e qualcuno, non potendovi rientrare, ha dovuto dormire all’aperto nel mese di dicembre.” Rapporto LasciateCientrare

Concordo su quanto riportato dagli attivisti delle due reti: perchè dubitare delle testimonianze di questi giovani abbandonati ad alta quota, in mezzo alla neve e lontani da qualunque tipo di socialità? Reggio Calabria dista 30 chilometri e i collegamenti, a quanto pare e come ben sappiamo, non sono dei migliori.
Si legge sempre nella stessa nota:

Ma è il clima generale della struttura, incentrato su una forsennata caccia alle streghe – alias i migranti che denunciano o criticano le pessime condizioni della gestione del centro – a preoccuparci e a imporci di vigilare in maniera continua sullo stato effettivo dell’accoglienza nel nostro territorio, a Gambarie non solo. Troviamo inaccettabile che i responsabili di una struttura deputata all’accoglienza dei migranti, e che per questo motivo riceve finanziamenti pubblici importanti, governi la situazione col terrore, dato che molti ragazzi anche in occasione della nostra visita avevano paura di essere visti o addirittura fotografati nel momento in cui parlavano con noi. Ancora più incredibile è che da più un mese non siano stati affidati ufficialmente ad una cooperativa (che subentri alla vecchia, attiva a Gambarie fino al 31 dicembre scorso) servizi essenziali quali ad esempio l’assistenza legale e sanitaria, le attività educative, la mediazione culturale.

Dov’è il reale senso di accoglienza se sulla pelle dei migranti continua a esserci un grosso business? E’ doveroso ricordare quanto i 35 euro tanto decantati a guadagno dei migranti stessi (peccato come nella maggior parte dei casi non abbiano manco un centesimo in tasca), finiscano direttamente nelle casse di alberghi ed enti vari.
Scriveva Bauman nel suo saggio “Vite di scarto”: <<I ghetti, con o senza nome, sono istituzioni antiche. Sono serviti alla «stratificazione composita» (e anche, in un sol colpo, alla «deprivazione multipla»), sovrapponendo differenziazione sovrapposta per casta o per classe e separazione ter-ritoriale. I ghetti possono essere volontari o involontari (benché soltanto questi ultimi tendano a recare su di sé il marchio infamante del nome), e la principale differenza fra i due tipi è da quale parte del «confine asimmetrico» siano rivolti, cioè verso gli ostacoli ammonticchiati all’ingresso o all’uscita del territorio del ghetto.>>

Come possiamo parlare di una società multiculturale armoniosa, se chi arriva in Italia si sentirà sempre escluso e chiuso in quella bolla etichettata, appunto, come “loro” e rinchiuso in contrade, piccoli paesi, borghi semi abbandonati senza poter interagire con altre persone?
Eppure sarebbe semplice abbattere certe barriere e tendere una mano troppe volte trattenuta per un’assurda paura del “diverso”. Basterebbe arrampicarsi sulle reti di protezione e allungare il collo per comprendere quanto le suite extra lusso e i centri benessere di cui godrebbero “gli invasori” siano una marea di frottole montate ad hoc per raccattare voti e distrarci da altre preoccupazioni ben più reali. E urgenti, soprattutto.