Taranto. Alla frontiera dell’hotspot

Breve report da Taranto, dove i cui i migranti vengono identificati e poi rimandati in altre zone del Bel Paese. 

Il sole splende alto e soffia una fresca brezza marina su Taranto. Fa caldo in questa giornata di aprile e le barche ancorate al porto, l’acqua apparentemente cristallina, rendono meno lontani i giorni che mancano all’inizio dell’estate. Taranto, quasi da cartolina: il porto, i viali ordinati e i palazzi eleganti della città nuova.
Taranto, quasi da fotografia: la città vecchia costruita su un’isola collegata da un ponte girevole alla terraferma. Pare che il tempo si sia fermato fra le mura del centro storico. Poco distante dalla piazza principale, sul lungomare i pescatori raccolgono le reti.

Fra i vicoli di questo borgo antico si gira accompagnati dal sottofondo di un continuo vociare mentre si passa accanto a chiese, palazzi d’epoca, reperti archeologici. Ogni cosa racconta l’importanza di quella che fu la capitale della Magna Grecia. Un continuo contrasto attraversa la città vecchia: a fianco a tanta bellezza storica, il decadimento e l’abbandono mostrato da abitazioni disabitate e strutture murate, chiuse, a pezzi.
E poi Piazza Fontana coi bar, i ristoranti e un gruppo di bambini che vendono palme intrecciate per la Settimana Santa. Uno di loro mi viene incontro trotterellando “Compri una palma? Costa un euro. Domenica c’è la Messa delle Palme.” Gli faccio una carezza sulla testa e mi prende per un braccio portandomi dai cugini e dalle amiche. E’ un gruppo di bambini tra i 6 e i 10 anni. Mi riempiono di domande e mi raccontano cosa fanno nelle loro giornate, quando a un certo punto una di loro dice: “Lo sai che Taranto è come Napoli? Noi siamo come i bambini napoletani.”
In quelle parole lo scatto a un’Italia che corre a due velocità.

Da questo punto del piazzale alle spalle delle barche attraccate, della tangenziale, delle case in lontananza, si levano al cielo colonne altissime e fumanti. Blu, come il colore del firmamento che fa da coperta a questa città spaccata a metà. E’ il cielo dell’Ilva.
Il Rione Tamburi, o “I Tamburi”, non dista molto dalla stazione dei treni e degli autobus, collocandosi a una manciata di chilometri dal colosso siderurgico. Pare che un mantello di ruggine abbia ricoperto l’intero quartiere. Un velo rosso porpora ricopre il campetto da calcio, l’asfalto, le facciate delle abitazioni, la terra. Alcune case sono state dipinte della stessa tonalità “regalata” dalle polveri dei minerali e dei veleni buttati fuori dalla pancia della fabbrica.
Una nube tossica, invisibile,che fa nascere bambine e bambini già ammalati di cancro e causa del raddoppiato numero di persone malate di tumore rispetto a dieci anni fa.
Su un muro qualcuno ha scritto “Riva boia”.

E immediatamente mi tornano in mente gli scioperi, gli operai arrampicati sui silos, uno striscione steso a sventolare fuori dall’ex industria tessile del mio paese: “I morti Marlane chiedono giustizia”. Poi l’elenco di 108 morti bianche rimaste senza giustizia. “Il fatto non sussiste”, dichiarò il giudice alla termine del processo di primo grado.
Quei bambini hanno ragione: Taranto non è solo come Napoli ma è simile a qualunque altra città del Sud Italia. Sfruttata e calpestata da industriali venerati come benefattori giunti dal Nord a gettare un’ancora di salvezza a chi per anni ha sofferto la fame e lo sfruttamento nelle campagne o le faticate battute di pesca in mezzo al mare in burrasca. Quegli stessi signorotti decisi a chiudere e a trasferire le stesse industrie in Paesi poveri, pagando la manodopera meno di un caffè. La fine dell’illusoria “rivoluzione industriale del Tirreno Cosentino”, il crollo del sogno della Torino del Sud alla chiusura della Pertusola Sud di Crotone , l’Eni di Viggiano (Potenza) e anche Taranto descrivono un dramma nel dramma. Il conflitto interiore dei disoccupati. Quanto è stato enorme l’inganno di chi ti aveva assunto con un “posto fisso”, finendo a distruggere l’ambiente circostante ma soprattutto, dopo averti costretto a lavorare in pessime condizioni (gli operai della Marlane ricordano ancora quando nei reparti aspiravano i fumi delle tinture per le stoffe coi loro stessi polmoni: niente impianto di aspirazione. Bisogna pur sempre risparmiare in tempi di crisi, no?)? Ora, dopo essersi appropriato delle tua vita e lasciando devastazione, se ne andava lasciando attorno a te solo disoccupazione.
Senza un lavoro è ripresa una nuova ondata di emigrazione. Oltre il danno, la beffa: la carente rete sanitaria e la mancanza di uno stipendio hanno reso difficile curare le malattie regalate tra i fumi tossici e gli scarti industriali.
Ma i racconti operai di un Sud distrutto (e non solo, purtroppo) appartengono a un capitolo a parte e non basterebbe un libro per analizzare i complessi legami intrecciati fra miseria, interessi dei forti e il tallone di ferro schiacciato sui più deboli.
Torniamo in mezzo al rosso delle polveri dell’Ilva, dei pozzi petroliferi delle raffinerie dell’Eni, dove fra il porto mercantile Varco Nord e la tangenziale, in un deserto di capannoni abbandonati e fra le difficoltà sociali ed economiche di una città che comunque non mostra affatto, e per fortuna, la scia dell’ondata xenofoba che da troppo tempo avvolge il nostro tempo, ci sono tendoni bianchi e un recinto. Benvenuti all’hotspot di Taranto, la nuova geniale idea della Fortezza Europa.

Ma partiamo dalle origini: che cos’è l’hotspot? Per far fronte alle richieste di asilo l’Ue, in accordo con l’Agenzia Frontex (agenzia europea gestione frontiere), l’EASO (ufficio europeo di sostegno per l’asilo), l’Europool (agenzia cooperazione delle forze di polizia) e l’Eurojust (agenzia europea cooperazione giudiziaria), nel 2015, avvia questi primi punti in cui le persone giunte sulle nostre coste vengono identificate, registrate e rilevate con le impronte digitali fra le 48 e le 72 ore. Lampedusa è stato l’hotspot satellite a cui si aggiungono Augusta, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle e, appunto, Taranto. Chi rifiuta di sottoporsi alle procedure seguite anche dalla polizia italiana e da altri operatori del settore dell’accoglienza, finisce dritto dritto nei nuovi centri di detenzione per l’espatrio (prima si trattava dei Cie, modificati dal decreto Minniti- Orlando).
Per quattro giorni, insieme a volontari e attiviste dell’associazione Stamp, ho partecipato alle attività di monitoraggio su uno dei punti caldi per l'(in)accoglienza all’italiana riservata a rifugiati e richiedenti asilo. Nei pressi della stazione ferroviaria è stato allestito un info- point con wi fii gratuito, mediazione linguistica, assitenza legale. Nel giro di pochi giorni abbiamo conosciuto molti ragazzi provenienti principalmente dall’Africa, a cui abbiamo dato quelle informazioni scarse o mancanti. Spesso neanche ventenni, gli ospiti dell’hotspot sono stati rastrellati a Ventimiglia o Como e, caricati su un autobus, portati a Taranto. Solo nel 2016, qui hanno transitato oltre 6000 persone.
Gambia, Mali, Isole Comore, Senegal, Nigeria, Guinea, Bangladesh: ognuno di loro portava con sè una storia e negli occhi aveva tutta la paura e la speranza racchiusa per avere una vita migliore.
Dopo aver oltrepassato l’inferno delle carceri libiche e i viaggi sui gommoni, ora si trovavano in una “cella” vista mare da cui potevano uscire vagando senza una direzione ben precisa.
A parte il tappeto rosso dei veleni made in Ilva, intorno all’hotspot esiste il nulla. Una strada deserta che poco più sopra si unisce allo svincolo della tangenziale; la stessa attraversata dai migranti per arrivare in città. Qualcuno stringe in mano un foglio di carta. E’ un “Biglietto di invito” a presentarsi nella questura indicata dalla prefettura di Taranto entro 72 ore dalla notifica. Un breve testo, scritto interamente in italiano,  riporta le generalità del migrante e indica le varie mete da dover raggiungere: da Milano a Cremona, Bergamo, Torino, Bologna, Crotone, Reggio Calabria.
E qui il meccanismo hotspot, e accoglienza in generale, si inceppa peggio di quanto non abbia fatto prima. I migranti, sballottati come un pallina da ping pong da Nord a Sud senza sapere a quale destino vadano incontro, in tasca non hanno un centesimo ma devono assolutamente presentarsi sul posto di polizia indicato; pena la multa di oltre 200 euro o l’arresto fino a tre mesi. Ma come si arriva in Calabria, se nonostante in linea d’aria disti una manciata di chilometri dal territorio pugliese, i treni viaggiano su un unico binario e il percorso diventa una corsa a ostacoli bus- treno- bus e si impiegano anche otto ore? Come si raggiunge una qualunque destinazione del Nord Italia, se da Taranto ci vuole quasi una giornata? E soprattutto, problema principale, in quale modo i migranti possono pagare il biglietto di Trenitalia o di una compagnia di autobus se non hanno soldi a disposizione? E’ vero, si può sempre tentare la fortuna salendo su un qualsiasi vagone e sperare che il controllore non arrivi o ti lasci scendere a destinazione. Ma così non va, è evidente.

A maggior ragione quando su parecchi di questi “inviti” è impresso a penna  “non entra”. Tradotto: non c’è posto. Arrangiati a trascorrere la notte e il resto del tempo in qualche maniera. La mancata disponibilità di posti prevista per chi ha presentato la richiesta di asilo nella questura del posto che poi ha lasciato, è oggetto di espulsione o non può/ vuole richiedere la protezione abbandona i migranti a loro stessi, rendendoli vulnerabili a situazioni di estremo rischio: dall’arruolamento sotto il caporalato alla criminalità organizzata. La disperazione per aver perduto tutto e la preoccupazione di “essere solo un numero, un illegale” porterebbe chiunque di noi, in quelle condizioni, ad accettare patti in condizioni di vita ottimali impensabili.
Quel “non entra”, per esempio, è toccato anche a due donne delle Isole Comore; incontrate in un caldo pomeriggio. Le due ragazze sono arrivate sul piazzale della stazione in lacrime. Non capivano nulla di cosa stesse accadendo e, oltre alla loro lingua, spiaccicavano solo qualche parola di francese. Destinazione Bologna, che avrebbero raggiunto alle 4. 30 del mattino successivo. Un orario poco sicuro specie per quanto riguarda due donne migranti, e non in relazione al fatto che fossero sole (banalmente non lo erano.. erano in due!) o appartenenti al sesso debole ma  perchè, in un contesto sconosciuto e linguisticamente incomprensibile,  facilmente possono essere attirate nella trappola della tratta. Dopo innumerevoli sforzi, finalmente si trova il modo di comunicare con loro e in serata potranno alloggiare in un dormitorio. Sembrava tutto perfetto, se non fosse stato che all’improvviso le perdiamo di vista. Inizia la nostra affannata ricerca e ci porta fino all’autostazione, dove le troviamo in compagnia di altre persone. Affermando di dover seguire un ipotetico “mon frère” con la promessa che le avrebbe accompagnate in Francia. Proprio per varcare il confine italiano, le due donne vengono prelevate da Ventimiglia per sparire in mentre ci giriamo per un momento, un’altra volta, in un buco nero. Senza forze per il carico di delusione e impotenza davanti all’evidenza che nulla avremmo potuto fare, ce ne andiamo con tanta rabbia.

E’ questa la sicurezza offerta dallo Stato italiano e dall’Europa intera, mentre creano staccionate e alzano muri?
Ricordo un ragazzo del Gambia dirmi “Calabria no good. No food. No good”. Quando ho letto dell’operazione Johnny, in cui si è scoperto che il CARA di Crotone è stato amministrato da ‘Ndragheta e istituzioni colluse, ho capito cosa significasse quel “no good”. E questo il sistema di accoglienza da criticare, non le 35 euro al giorno e i fantomatici hotel a 5 stelle allestiti come alloggio per chi scappa da guerre e povertà, ma in realtà montati ad hoc per nascondere nefandezze e imbrogli di chi sta facendo dell’accoglienza e dei viaggi della speranza solo un enorme, grande business. Accogliere non equivale a ghettizzare chi scappa da guerra e fame in luoghi distanti da ritrovi sociali. Non si può far finta di non vedere.
Non è questa l’Italia sognata, nè da loro nè da noi se manteniamo ancora un minimo senso di solidarietà. Ed è forse il momento di chiedere rispetto per altri esseri umani. Proprio come noi.