Ventimiglia, una porta d’Europa blindata

 

Ventimiglia, porta occidentale d’Europa. Case colorate, strade da percorrere in salita per raggiungere i giardini botanici di Harbory e poi il fiume Roia, che divide la parte alta da quella bassa della città.
Nella zona moderna  di Ventimiglia, costruita intorno al 1800,  tra ristoranti e alberghi, lungomare e corso principale, si mescolano centinaia di accenti e lingue diverse.
In estate migliaia di turisti attraversano le vie di questa cittadina popolata da circa 30 mila abitanti. A un passo da qui, la Costa Azzurra.
Il fiume Roia non traccia solo la linea di confine italo- francese, ma separa  “noi” e un “loro”.
Tra chi ha diritto di restare in Europa ed essere riconosciuto come essere umano e loro, i migranti.

 

VITE DI SCARTO
I governi occidentali hanno fallito. La globalizzazione ha fatto un buco nell’acqua quando, imponendo le leggi del libero mercato, ha accantonato il Welfare e la tutela dei beni comuni in nome degli interessi economico- finanziari.
E’ in questo sistema che si inseriscono le innumerevoli guerre legate al petrolio e il land grabbing– nuova forma di colonialismo-; responsabili degli innumerevoli spargimenti di sangue e della migrazione di milioni di vite.

Vite umane paragonate ai “rifiuti” da una Fortezza Europa capace di sbarrare le porte e di praticare un’accoglienza indegna.
Vite umane su cui vengono riversati odio, paura e insicurezza di Paesi assuefatti a una politica della legalità a tutti costi (anche se rispettare una legge significa sacrificare l’umana pietà), del terrore e del diverso inteso come unico colpevole dello sfacelo del nostro tempo.

La crisi degli Stati crea barriere e alza muri dietro cui arrancano le “vite di scarto” in fuga sulle nostre coste.
Che si scappi da una guerra, da persecuzioni politiche o si rifiutino condizioni economiche precarie, chi arriva in Italia si scontra con procedure burocratiche complesse e inadeguate.
Impronte, documenti mai ottenuti, comunicazioni scritte in italiano senza alcuna traduzione e poi di nuovo la fuga.
Il salto di una frontiera che, se riuscirà, aprirà la vita a nuove possibilità.

Vite al margine.

Mohammed, Mamadou, Omar, Ibrahima, Mustapha sono solo alcuni dei migranti a cui dalla rovente estate del 2015, quando la Francia ha deciso di abbassare le sbarre chiudendo la frontiera, qualcuno ha dato loro un nome.
Da quel momento in poi, fra sgomberi e scene di violenza, atti di generosità compiuti dal basso, Ventimiglia è diventata il punto di arrivo, e di attesa, per chi vuole uscire dall’Italia.
Solo nel 2016, qui, hanno transitato almeno 25 mila persone. Molte donne, bambini e soprattutto tanti minori che ancora oggi vengono rispediti indietro dalla Gendarmerie francese per svanire spessonel nulla.

Per molti mesi, la Chiesa delle Gianchette ha dato riparo a circa 13 mila persone.  Poi, l’ultimo “attacco”.
Lo sgombero e il trasferimento dei presenti al Parco Roia, dove la Croce Rossa gestisce il campo istituzionale creato per risolvere “l’emergenza”.
Ma il posto non c’è per tutti.

Così, lontano dagli occhi di turisti occupati a tuffarsi nella movida ligure, la riva sinistra del Fiume Roia è diventata un vero e proprio per rifugio per chi non ha trovato riparo altrove.

Letti improvvisati con sacchi a pelo, coperte, cartoni in un ambiente inospitale. I migranti cercano di trovare tepore come meglio possono: la notte è lunga e umida, vicino al letto del fiume Roia.
E deve passare, mentre si prova ad attraversare la frontiera saltando a bordo di qualche treno merci o percorrendo la lunga galleria ferroviaria al buio. Qualcuno tenta addirittura di seguire un vecchio sentiero in mezzo ai Monti. Si chiama Passo della Morte, e di tanti migranti non si è mai più avuta notizia.
Altri, invece, il giorno cercano di prendere un treno dalla stazione di Ventimiglia. Direzione Costa Azzurra. Raramente capita che riescano ad allontanarsi minimo 30 km dal confine (distanza utile per non essere rispediti indietro). La prima fermata della tratta Cote D’Azur è Menton Garavan.
La gendarmerie si prepara con manganelli e chiavistelli per aprire le porte dei bagni; sale sulle vetture e blocca i vagoni per venti minuti più o meno. Basta avere la carnagione olivastra per essere fermati: se non sei in regola, scendi giù e vieni portato alla frontiera.

All’alt non ci sono molte possibilità: o vieni rispedito in Italia, magari a piedi sotto il  sole e con 40°; oppure sei caricato su un bus. Se capiti sul pullman comincia una partita a ping- pong: da Ventimiglia a qualche hotspot; preferibilmente Taranto e poi di nuovo in giro per l’Italia senza un soldo, o rimpatriato.

C’è chi ha provato a varcare quella soglia oltre venti volte e ora, stremato, si accontenterebbe di ottenere i documenti e restare in Italia. Tra una partita a domino e un’altra a scacchi, la vita prova a procedere secondo una straordinaria normalità; mentre le otto di sera si avvicinano e alcune ong si preoccupano di offrire un pasto caldo ai ragazzi.

Scende la sera su Ventimiglia.
Un’altra notte di sogni e speranze,  muri da saltare e ponti da costruire, sta per arrivare.

 

Nel ghetto di San Ferdinando, dove l’inferno è realtà.

Il treno si ferma e una voce registrata annuncia la fermata della stazione di arrivo:Welcome to Rosarno. Benvenuti in questo pezzo di profondo Sud immerso nella Piana di Gioia Tauro.

La strada che porta alle tendopoli di Rosarno si lascia alle spalle il centro abitato coi suoi palazzi lasciati a metà e le case coi foratini in bella vista.
Poi il percorso si perde nella campagna calabrese, arsa da mesi di siccità e avvolta in un clima torrido.
In lontananza, il mare.
Non ci sarebbe bisogno neanche della segnaletica in questo caso: le gru del porto e l’inceneritore indicano quanto la direzione sia giusta. Gioia Tauro, in cui il porto e il termovalorizzatore erano stati presentati come un’importante opportunità di impiego e sviluppo per l’intera economia regionale.
Di crescita occupazionale neanche l’ombra, però. Quello che sarebbe dovuto diventare uno dei più grandi terminal commerciali del Mar Mediterraneo, nel corso degli anni ha visto solo stagioni di licenziamenti e inchieste per traffici illeciti. L’impianto per lo smaltimento dei rifiuti, invece, ha bruciato di tutto finendo per inquinare l’ambiente e portando solo il tasso dei tumori a una percentuale elevatissima.

In questo lembo di Calabria, dove ogni problema molte volte non viene nemmeno preso in considerazione o è risolto mediante “piani di sicurezza”, c’è anche un enorme spiazzo di terra battuta.
Una sorta di linea di confine fra il campo container e la tendopoli di San Ferdinando.

La rivolta di Rosarno. Sono ormai passati sette da anni da quando i migranti escono allo scoperto dai luoghi in cui trovano riparo al ritorno dai campi; casolari abbandonati e capannoni industriali- la Rognetta e la Cartiera- ormai dismessi. Circa 2000 persone fino a quel momento considerate invisibili, a Rosarno,  si uniscono in corteo e la rabbia esplode come il colpo di arma ad aria compressa che la sera prima aveva ferito un paio di braccianti.
I migranti si ribellano ai soprusi delle Ndrine e del caporalato.
Loro non sono più disposti a subire spregevoli angherie e alzano la testa davanti alla ‘Ndrangheta, che dopo aver succhiato e stuprato la Calabria fino alle viscere, ha deciso di continuare il proprio banchetto anche sulla pelle dei migranti.
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno, definisce quell’episodio come “atto rivoluzionario” e in un’intervista sarà lui stesso a spiegare come la “rivolta” dei rosarnesi, scoppiata nelle due giornate succeessive alla protesta dei braccianti, fosse stata strumentalizzata da chi avrebbe preferito continuare a calpestare la dignità di stranieri e italiani.

 

La vita nel ghetto. Alla richiesta di condizioni lavorative e abitative dignitose lo Stato, quindi, risponde investendo milioni di euro per attrezzare un campo con una cinquantina di tende da otto posti letto ciascuna e dieci docce.
Uno spazio che avrebbe dovuto ospitare circa 400 persone.
Come spesso accade, però, ai “piani alti” la distrazione stranamente casuale fa parte del modus operandi e nella tendopoli, durante la stagione della raccolta delle arance, ci sono almeno 3000 persone.
Nel corso di quasi dieci anni, l’area della tendopoli si è ingradita.


Baracche costruite alla meno peggio con pali in legno, teloni cellophanati, lamiere in amianto, compensato, materiale plastificato hanno preso la forma di una casa per uomini e donne che si fermano al crocevia di Rosarno.


Fa caldissimo. Buona parte del campo è andata in cenere agli inizi di luglio, quando un incendio doloso ha polverizzato le baracche.

L’odore acre proveniente dal materiale plastico incendiato si unisce alla puzza proveniente da centinaia di sacchi della spazzatura ammassati lungo tutto il perimetro del ghetto.
L’aria è irrespirabile. Ci sono 40° e l’afa ha reso l’atmosfera una cappa a cielo aperto.

 

In questo inferno manca l’acqua, e l’energia elettrica si ottiene con un paio di generatori.
Le condizioni igienico sanitarie sono pessime. Quando alcuni attivisti del collettivo Mamadou di Bolzano visitano gratuitamente i ragazzi presenti nel campo, capiscono subito come i problemi gastro intestinali siano associati a una scarsa alimentazione e idratazione, e al consumo di acqua non potabile.

Nonostante le difficoltà, questo posto si è trasformato in una sorta di città nella città, con bazar e sala tv.
Alcuni dei ragazzi presenti salutano e chiacchierano fra di loro seduti su una trave di legno all’ombra di teli plastificati. Qualcuno passeggia, altri cucinano quel poco di cibo acquistato pagandolo il doppio.

Il gioco dell’oca.
Per contrastare lo sfruttamento lavorativo e permettere una migliore integrazione dei migranti, la Prefettura di Reggio Calabria ha proposto la solita ricetta risolutiva.
Come da tradizione, dunque, a breve ci sarà lo sgombero del ghetto e la realizzazione di una nuova tendopoli.
Ovviamente, sempre nelle campagne in cui i migranti lavorano dalle 7 del mattino alle 5 del pomeriggio senza neanche potersi lamentare. Lontani dai borghi calabresi e dalla vita quotidiana che dovrebbero poter vivere anche loro.
Invece no. Si torna al punto di partenza: l’emergenza.Hai sbagliato casella. Resta fermo per tre turni.
Insomma, quelle scene di semi- normalità viste all’interno del campo continuano a restare solo delle “prove”.
Assurdo e inaccettabile da parte nostra assistere all’ennesima speculazione; coraggioso da parte loro vedere la forza d’animo di chi, nonostante l’emarginazione e i maltrattamenti, riesce ancora a sorridere sperando in un domani migliore.

Issa: dal Niger al ghetto passando per Bergamo e sognando la felicità

 

Entrata della tendopoli

Nel ghetto di San Ferdinando, a metà strada fa Gioia Tauro e Rosarno, è un giovedì mattina afoso di fine luglio. Fa caldo: la colonnina di mercurio tocca i 40° gradi e il sole picchia sulle nostre teste e su quelle dei migranti, riscaldando i tendoni firmati “Ministero dell’interno” e le baracche costruite alla meno peggio con pali in legno e coperte da teloni plastificati per evitare che filtri l’acqua piovana.

In uno di questi “alloggi”, usato come retrobottega del bazar aperto nel ghetto,  il Collettivo Mamadou di Bolzano (che dopo aver svolto attività di monitoraggio sulle condizioni sanitarie e di vita nel campo per ben due anni,  attraverso una campagna di crowfounding ha acquistato una struttura che sarà montata a inizio autunno e fungerà da ambulatorio, punto legale e scuola di italiano), dopo aver ottenuto un container adibito a studio medico, organizza il corso di alfabetizzazione per i migranti.

Quel mattino siamo in leggero ritardo e un ragazzo, in modo simpatico, ci segnala la mancanta puntualità. Sorride e gli diamo ragione. A lezione è attento, sveglio, ha voglia di imparare e per noi diventa “Issa il Bergamasco”, perchè quando domandiamo da dove venga non esita un minuto a rispondere “Bergamo”, mentre i compagni di classe ridono. Per un attimo è stato come tornare alle scuole superiori, quando ti affannavi a inventare una scusa per non essere interrogata ma oltrepassavi i limiti della credibilità.
A fine lezione mi fermo un po’ a chiacchierare con lui arrivato dal Niger sei anni fa, a maggio 2011.

All’età di sette anni suo padre lo porta a vivere con sè in Ghana affinchè studiasse bene l’inglese e potesse trovare un buon lavoro una volta concluso il suo percorso scolastico. Gli anni scorrono veloci  ma qualcosa va storto e Issa, rimasto orfano, torna in Niger e per un anno vive con la madre. Ma casa sua gli sta stretta. Capisce presto come il Niger non possa offrigli alcuna garanzia lavorativa ed esprime alla madre la voglia di viaggiare e andare via. La donna raccomanda il figlio a un pastore libico che gli offre vitto, alloggio e una paga.

Il ragazzo si trasferisce in Libia e si occupa del bestiame per almeno un anno, finchè non percepisce più lo stipendio. Un mese, due, tre. Dopo sei mesi Issa chiede il salario senza ottenere nulla. e decide di darsi da fare altrove. Comincia a fare il muratore insieme a un amico egiziano. Diventa molto bravo e nel giro di tre anni lavora in proprio.  Tutto procede secondo il verso giusto fino al 17 febbraio del 2011, giorno della morte di Gheddafi. Scoppia la prima guerra civile e Issa, a pochi giorno dall’esplosione della guerriglia, capirà quanto quel posto non sia più tanto sicuro. Un pomeriggio è in casa insieme alle altre alle altre quattro persone con cui divide l’appartamento in cui cui degli uomini armati fanno irruzione all’improvviso.
Non c’è tempo di comprende cosa stia succendendo.

Gli eventi si susseguono in pochi minuti. “Sei contento che sia morto Gheddafi?”, chiedono a uno dei presenti. Issa ricorda solo le armi. Non capisce la risposta. Tutto si consuma in un batter d’occhio: il sangue, i colpi di mitragliatrice, l’istinto che lo porta a saltare giù dalla finestra.
Corre, Issa. Corre, cade, si rialza. Qualcuno gli urla dietro qualcosa. Corre, cade, si rialza. I proiettili sfiorano il suo corpo.
Corre, cade. Resta a terra con la testa insanguinata e il ginocchio sinistro perforato da un colpo sparato da quegli uomini armati. Probabilmente pensano di averlo ucciso ma lui respira ancora.

Rimane in coma per due mesi e al suo risveglio scopre di essere stato salvato da due abitanti del luogo. In ospedale è interrogato da alcuni miitari libici, interessati a sapere perchè fosse in Libia e dove volesse andare. Il ragazzo chiede di poter tornare in Niger per riabbracciare la mamma ma è impossibile attraversare il territorio libico e varcare i confini. Viene trasferito in una città costiera e viene ospitato per circa dieci giorni in una struttura adiacente il porto.

Una fila di baracche nel ghetto

 

Destinazione Italia. 1.200 persone stipate a bordo di una nave a tre piani attraversano il Mar Mediterraneo e raggiungono le coste di Lampedusa. Poco più che ventenne, Issa si ritrova in un Paese lontano migliaia di chilometri dai suoi cari. Solo e pieno di dolori post- convalescenza. E’ trasferito a Bergamo, nuova residenza italiana per almeno un anno. Ospite di uno sprar, lavora alla realizzazione di un evento culturale di cui dice di non ricordare il nome. Terminato il periodo di proroga sull’ospitalità al centro,  va a vivere da un suo amico. Le vertigini sono passate e la ferita alla testa si è rimarginata e così Issa torna a impastare calce e cemento nella bergamasca, per poi lasciare lo Stivale alla volta della Germania.
Passa due anni vendendo i giornali porta a porta, torna a Bergamo a rinnovare i documenti e risale nuovamente in Germania.  Adesso Issa ha 30 anni e dal 2016  vive fra Napoli e Rosarno.

In Calabria ha raccolto le arance sotto lo schiaffo del caporale per 700, 800 euro al mese, lavorando dalle 7 del mattino alle 16.30 del pomeriggio. Dall’alba al tramonto nei fitti agrumeti calabresi, non riuscendo neanche a vedere la luce del sole. Si sopravvive fra la stagione degli agrumi, il razzismo e i luoghi comuni sui migranti e l’inospitale ghetto.
Nella tendopoli la vita non è facile. La pioggia caduta la notte prima ha ravvivato l’odore acre della cenere lasciata dal rogo appiccato all’altra metà del campo all’inizio del mese di Luglio.  La puzza dei teloni plastica sciolta dalle fiamme è forte, mentre i rifiuti abbandonati lungo tutto il perimetro della tendopoli formano una specie di banchina. Le condizioni igienico sanitarie del campo sono pessime. Dormire è impossibile.

Il ghetto di San Ferdinando è un luogo infernale. Creato grazie a miliardi di euro e dalla geniale idea di istituzioni capaci di affrontare questioni sociali e umanitarie come un’emergenza, oggi è una pozzanghera a cielo aperto durante i temporali e nulla, lì dentro, è riconducibile nemmeno a una prima e misera accoglienza.
A Rosarno muore l’umanità, così come svanisce ogni sentimento di pietà umana tutte le volte in cui i problemi presenti in Italia, ma soprattutto in Calabria, vengono addebitati ai migranti invece sfruttati e calpestati nella loro dignità.

Quando chiedo a Issa dove gli piacerebbe andare e cosa si aspetta dal futuro, mi risponde: “Voglio tornare a Bergamo. Qua non c’è lavoro.” Poi mi guarda, sorride e aggiunge: ” Vorrei un po’ di felicità e una vita migliore”.
Si possono mai alzare muri e recinti alla speranza? Io penso proprio di no. 

Taranto. Alla frontiera dell’hotspot

Breve report da Taranto, dove i cui i migranti vengono identificati e poi rimandati in altre zone del Bel Paese. 

Il sole splende alto e soffia una fresca brezza marina su Taranto. Fa caldo in questa giornata di aprile e le barche ancorate al porto, l’acqua apparentemente cristallina, rendono meno lontani i giorni che mancano all’inizio dell’estate. Taranto, quasi da cartolina: il porto, i viali ordinati e i palazzi eleganti della città nuova.
Taranto, quasi da fotografia: la città vecchia costruita su un’isola collegata da un ponte girevole alla terraferma. Pare che il tempo si sia fermato fra le mura del centro storico. Poco distante dalla piazza principale, sul lungomare i pescatori raccolgono le reti.

Fra i vicoli di questo borgo antico si gira accompagnati dal sottofondo di un continuo vociare mentre si passa accanto a chiese, palazzi d’epoca, reperti archeologici. Ogni cosa racconta l’importanza di quella che fu la capitale della Magna Grecia. Un continuo contrasto attraversa la città vecchia: a fianco a tanta bellezza storica, il decadimento e l’abbandono mostrato da abitazioni disabitate e strutture murate, chiuse, a pezzi.
E poi Piazza Fontana coi bar, i ristoranti e un gruppo di bambini che vendono palme intrecciate per la Settimana Santa. Uno di loro mi viene incontro trotterellando “Compri una palma? Costa un euro. Domenica c’è la Messa delle Palme.” Gli faccio una carezza sulla testa e mi prende per un braccio portandomi dai cugini e dalle amiche. E’ un gruppo di bambini tra i 6 e i 10 anni. Mi riempiono di domande e mi raccontano cosa fanno nelle loro giornate, quando a un certo punto una di loro dice: “Lo sai che Taranto è come Napoli? Noi siamo come i bambini napoletani.”
In quelle parole lo scatto a un’Italia che corre a due velocità.

Da questo punto del piazzale alle spalle delle barche attraccate, della tangenziale, delle case in lontananza, si levano al cielo colonne altissime e fumanti. Blu, come il colore del firmamento che fa da coperta a questa città spaccata a metà. E’ il cielo dell’Ilva.
Il Rione Tamburi, o “I Tamburi”, non dista molto dalla stazione dei treni e degli autobus, collocandosi a una manciata di chilometri dal colosso siderurgico. Pare che un mantello di ruggine abbia ricoperto l’intero quartiere. Un velo rosso porpora ricopre il campetto da calcio, l’asfalto, le facciate delle abitazioni, la terra. Alcune case sono state dipinte della stessa tonalità “regalata” dalle polveri dei minerali e dei veleni buttati fuori dalla pancia della fabbrica.
Una nube tossica, invisibile,che fa nascere bambine e bambini già ammalati di cancro e causa del raddoppiato numero di persone malate di tumore rispetto a dieci anni fa.
Su un muro qualcuno ha scritto “Riva boia”.

E immediatamente mi tornano in mente gli scioperi, gli operai arrampicati sui silos, uno striscione steso a sventolare fuori dall’ex industria tessile del mio paese: “I morti Marlane chiedono giustizia”. Poi l’elenco di 108 morti bianche rimaste senza giustizia. “Il fatto non sussiste”, dichiarò il giudice alla termine del processo di primo grado.
Quei bambini hanno ragione: Taranto non è solo come Napoli ma è simile a qualunque altra città del Sud Italia. Sfruttata e calpestata da industriali venerati come benefattori giunti dal Nord a gettare un’ancora di salvezza a chi per anni ha sofferto la fame e lo sfruttamento nelle campagne o le faticate battute di pesca in mezzo al mare in burrasca. Quegli stessi signorotti decisi a chiudere e a trasferire le stesse industrie in Paesi poveri, pagando la manodopera meno di un caffè. La fine dell’illusoria “rivoluzione industriale del Tirreno Cosentino”, il crollo del sogno della Torino del Sud alla chiusura della Pertusola Sud di Crotone , l’Eni di Viggiano (Potenza) e anche Taranto descrivono un dramma nel dramma. Il conflitto interiore dei disoccupati. Quanto è stato enorme l’inganno di chi ti aveva assunto con un “posto fisso”, finendo a distruggere l’ambiente circostante ma soprattutto, dopo averti costretto a lavorare in pessime condizioni (gli operai della Marlane ricordano ancora quando nei reparti aspiravano i fumi delle tinture per le stoffe coi loro stessi polmoni: niente impianto di aspirazione. Bisogna pur sempre risparmiare in tempi di crisi, no?)? Ora, dopo essersi appropriato delle tua vita e lasciando devastazione, se ne andava lasciando attorno a te solo disoccupazione.
Senza un lavoro è ripresa una nuova ondata di emigrazione. Oltre il danno, la beffa: la carente rete sanitaria e la mancanza di uno stipendio hanno reso difficile curare le malattie regalate tra i fumi tossici e gli scarti industriali.
Ma i racconti operai di un Sud distrutto (e non solo, purtroppo) appartengono a un capitolo a parte e non basterebbe un libro per analizzare i complessi legami intrecciati fra miseria, interessi dei forti e il tallone di ferro schiacciato sui più deboli.
Torniamo in mezzo al rosso delle polveri dell’Ilva, dei pozzi petroliferi delle raffinerie dell’Eni, dove fra il porto mercantile Varco Nord e la tangenziale, in un deserto di capannoni abbandonati e fra le difficoltà sociali ed economiche di una città che comunque non mostra affatto, e per fortuna, la scia dell’ondata xenofoba che da troppo tempo avvolge il nostro tempo, ci sono tendoni bianchi e un recinto. Benvenuti all’hotspot di Taranto, la nuova geniale idea della Fortezza Europa.

Ma partiamo dalle origini: che cos’è l’hotspot? Per far fronte alle richieste di asilo l’Ue, in accordo con l’Agenzia Frontex (agenzia europea gestione frontiere), l’EASO (ufficio europeo di sostegno per l’asilo), l’Europool (agenzia cooperazione delle forze di polizia) e l’Eurojust (agenzia europea cooperazione giudiziaria), nel 2015, avvia questi primi punti in cui le persone giunte sulle nostre coste vengono identificate, registrate e rilevate con le impronte digitali fra le 48 e le 72 ore. Lampedusa è stato l’hotspot satellite a cui si aggiungono Augusta, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle e, appunto, Taranto. Chi rifiuta di sottoporsi alle procedure seguite anche dalla polizia italiana e da altri operatori del settore dell’accoglienza, finisce dritto dritto nei nuovi centri di detenzione per l’espatrio (prima si trattava dei Cie, modificati dal decreto Minniti- Orlando).
Per quattro giorni, insieme a volontari e attiviste dell’associazione Stamp, ho partecipato alle attività di monitoraggio su uno dei punti caldi per l'(in)accoglienza all’italiana riservata a rifugiati e richiedenti asilo. Nei pressi della stazione ferroviaria è stato allestito un info- point con wi fii gratuito, mediazione linguistica, assitenza legale. Nel giro di pochi giorni abbiamo conosciuto molti ragazzi provenienti principalmente dall’Africa, a cui abbiamo dato quelle informazioni scarse o mancanti. Spesso neanche ventenni, gli ospiti dell’hotspot sono stati rastrellati a Ventimiglia o Como e, caricati su un autobus, portati a Taranto. Solo nel 2016, qui hanno transitato oltre 6000 persone.
Gambia, Mali, Isole Comore, Senegal, Nigeria, Guinea, Bangladesh: ognuno di loro portava con sè una storia e negli occhi aveva tutta la paura e la speranza racchiusa per avere una vita migliore.
Dopo aver oltrepassato l’inferno delle carceri libiche e i viaggi sui gommoni, ora si trovavano in una “cella” vista mare da cui potevano uscire vagando senza una direzione ben precisa.
A parte il tappeto rosso dei veleni made in Ilva, intorno all’hotspot esiste il nulla. Una strada deserta che poco più sopra si unisce allo svincolo della tangenziale; la stessa attraversata dai migranti per arrivare in città. Qualcuno stringe in mano un foglio di carta. E’ un “Biglietto di invito” a presentarsi nella questura indicata dalla prefettura di Taranto entro 72 ore dalla notifica. Un breve testo, scritto interamente in italiano,  riporta le generalità del migrante e indica le varie mete da dover raggiungere: da Milano a Cremona, Bergamo, Torino, Bologna, Crotone, Reggio Calabria.
E qui il meccanismo hotspot, e accoglienza in generale, si inceppa peggio di quanto non abbia fatto prima. I migranti, sballottati come un pallina da ping pong da Nord a Sud senza sapere a quale destino vadano incontro, in tasca non hanno un centesimo ma devono assolutamente presentarsi sul posto di polizia indicato; pena la multa di oltre 200 euro o l’arresto fino a tre mesi. Ma come si arriva in Calabria, se nonostante in linea d’aria disti una manciata di chilometri dal territorio pugliese, i treni viaggiano su un unico binario e il percorso diventa una corsa a ostacoli bus- treno- bus e si impiegano anche otto ore? Come si raggiunge una qualunque destinazione del Nord Italia, se da Taranto ci vuole quasi una giornata? E soprattutto, problema principale, in quale modo i migranti possono pagare il biglietto di Trenitalia o di una compagnia di autobus se non hanno soldi a disposizione? E’ vero, si può sempre tentare la fortuna salendo su un qualsiasi vagone e sperare che il controllore non arrivi o ti lasci scendere a destinazione. Ma così non va, è evidente.

A maggior ragione quando su parecchi di questi “inviti” è impresso a penna  “non entra”. Tradotto: non c’è posto. Arrangiati a trascorrere la notte e il resto del tempo in qualche maniera. La mancata disponibilità di posti prevista per chi ha presentato la richiesta di asilo nella questura del posto che poi ha lasciato, è oggetto di espulsione o non può/ vuole richiedere la protezione abbandona i migranti a loro stessi, rendendoli vulnerabili a situazioni di estremo rischio: dall’arruolamento sotto il caporalato alla criminalità organizzata. La disperazione per aver perduto tutto e la preoccupazione di “essere solo un numero, un illegale” porterebbe chiunque di noi, in quelle condizioni, ad accettare patti in condizioni di vita ottimali impensabili.
Quel “non entra”, per esempio, è toccato anche a due donne delle Isole Comore; incontrate in un caldo pomeriggio. Le due ragazze sono arrivate sul piazzale della stazione in lacrime. Non capivano nulla di cosa stesse accadendo e, oltre alla loro lingua, spiaccicavano solo qualche parola di francese. Destinazione Bologna, che avrebbero raggiunto alle 4. 30 del mattino successivo. Un orario poco sicuro specie per quanto riguarda due donne migranti, e non in relazione al fatto che fossero sole (banalmente non lo erano.. erano in due!) o appartenenti al sesso debole ma  perchè, in un contesto sconosciuto e linguisticamente incomprensibile,  facilmente possono essere attirate nella trappola della tratta. Dopo innumerevoli sforzi, finalmente si trova il modo di comunicare con loro e in serata potranno alloggiare in un dormitorio. Sembrava tutto perfetto, se non fosse stato che all’improvviso le perdiamo di vista. Inizia la nostra affannata ricerca e ci porta fino all’autostazione, dove le troviamo in compagnia di altre persone. Affermando di dover seguire un ipotetico “mon frère” con la promessa che le avrebbe accompagnate in Francia. Proprio per varcare il confine italiano, le due donne vengono prelevate da Ventimiglia per sparire in mentre ci giriamo per un momento, un’altra volta, in un buco nero. Senza forze per il carico di delusione e impotenza davanti all’evidenza che nulla avremmo potuto fare, ce ne andiamo con tanta rabbia.

E’ questa la sicurezza offerta dallo Stato italiano e dall’Europa intera, mentre creano staccionate e alzano muri?
Ricordo un ragazzo del Gambia dirmi “Calabria no good. No food. No good”. Quando ho letto dell’operazione Johnny, in cui si è scoperto che il CARA di Crotone è stato amministrato da ‘Ndragheta e istituzioni colluse, ho capito cosa significasse quel “no good”. E questo il sistema di accoglienza da criticare, non le 35 euro al giorno e i fantomatici hotel a 5 stelle allestiti come alloggio per chi scappa da guerre e povertà, ma in realtà montati ad hoc per nascondere nefandezze e imbrogli di chi sta facendo dell’accoglienza e dei viaggi della speranza solo un enorme, grande business. Accogliere non equivale a ghettizzare chi scappa da guerra e fame in luoghi distanti da ritrovi sociali. Non si può far finta di non vedere.
Non è questa l’Italia sognata, nè da loro nè da noi se manteniamo ancora un minimo senso di solidarietà. Ed è forse il momento di chiedere rispetto per altri esseri umani. Proprio come noi.