Rosarno, in fiamme il ghetto dei migranti (pubblicato su Il Manifesto)

Nella notte un incendio distrugge la baraccopoli nella piana di gioia tauro. Muore una ragazza di 26 anni originaria della Nigeria. Nel campo trovano un rifugio per dormire almeno 1000 persone. CHe non hanno piu’ nulla.

(Questo articolo è stato pubblicato oggi, 28 gennaio 2018, su Il Manifesto https://ilmanifesto.it/rosarno-in-fiamme-il-ghetto-dei-migranti/)

“A nessuno importa di noi. Io vorrei solo un lavoro e una casa. Vorrei vivere tranquillo.” Issa viene dal Ghana. Ha lo voce rotta dal pianto mentre le lacrime gli rigano il volto. Davanti a lui ci sono solo i resti della sua “casa”. “Non è possibile. Ci trattano come bestie!” ripete con rabbia Mamadou. “ Tutto questo non doveva accadere. E le istituzioni ci ignorano!”, borbotta ancora. A terra c’è solo un manto di cenere e l’atmosfera è stata avvolta da un odore acre. “Potevamo morire tutti”, bisbiglia un ragazzo senegalese di appena 20 anni.

Intorno alle due di stanotte, un incendio è divampato nel ghetto di San Ferdinando. Forse un braciere, lasciato accesso per combattere il freddo della notte, ha dato origine al rogo che in poche ore ha distrutto oltre la metà della baraccopoli. Non è la prima volta in cui le fiamme avvolgono le casupole costruite utilizzando materiale plastico e legname, ma stavolta ha perso la vita una ragazza nigeriana di soli 26 anni. Becky Moses, questo il suo nome, era arrivata qui solo un mese fa dopo essere uscita dal Progetto Sprar di Riace. “Cercheremo di darle una degna sepoltura” ha commentato il sindaco del paesino ionico Mimmo Lucano, giunto sul posto insieme a due amiche della giovane.

Foto: Avvenire. it

Otto anni sono ormai trascorsi dalla famosa giornata in cui migliaia di migranti riempivano le strade di Rosarno ribellandosi ai soprusi dei caporali. Eppure, a distanza di quasi dieci anni, nulla pare sia cambiato.
In questo periodo, circa duemila persone provenienti principalmente dall’Africa Centrale, raggiungono la Piana di Gioia Tauro per raccogliere arance e kiwi a solo venti euro al giorno. Oltre a una paga da fame, i migranti sono costretti a vivere in condizioni disumane. Chi non dorme nei casolari abbandonati nella campagne di Taurianova, un comune vicino a San Ferdinando e a Rosarno, trova rifugio nel ghetto o nella nuova tendopoli. Dopo mille promesse mai mantenute, nessuno pare voglia trovare una sistemazione reale alle migliaia di persone invece collocate secondo inutili “piani di emergenza”.
Il ghetto di San Ferdinando, fino a ieri, ha rappresentato una seconda casa per almeno mille braccianti. Un luogo infernale, dove non esistevano acqua potabile e servizi igienici. La corrente elettrica, ottenuta dai generatori, serviva a tenere accese anche le luci dei bazar. Insomma, la baraccopoli era diventata un piccolo borgo invisibile nell’indifferenza delle istituzioni. Oggi non resta che qualche baracca. La Protezione Civile ha montato qualche tenda dove stanotte dormirà chi ha visto distrutto il proprio rifugio. “E adesso come faremo?” si chiede Ahmed.
A 500 metri dalle baracche, c’è la nuova tendopoli in cui possono dormire solo 500 persone. La struttura è stata realizzata nel mese di agosto ed è dotata di un sistema di videosorveglianza. Gli ospiti, dopo essere stati identificati tramite impronte, possono accedervi solo tramite un badge. Nonostante sia in funzione da qualche mese, la struttura presenta già alcuni problemi: il servizio cucina, ad esempio, dopo la sostituzione dell’associazione inizialmente incaricata di gestire l’area, non è più entrata in funzione. “Qui fa freddo. La notte non riesco a dormire”, dice Alì. Nelle tende non esiste un impianto di riscaldamento e l’uso delle stufe fa saltare il quadro elettrico. Unica nota positiva è invece la scuola di italiano, che grazie all’accordo fra Sos Rosarno e il Comune di San Ferdinando, è aperta anche ai migranti che non risiedono all’interno del campo. Non è ovviamente una soluzione al problema abitativo che riguarda i braccianti, però. La tendopoli è stata infatti realizzata in seguito a un Protocollo Operativo firmato dalla Prefettura di Reggio Calabria con il Ministero degli Interni e altre associazioni. “Soluzione temporanea”, si legge sui documenti. Eppure, secondo un analisi elaborata dalla società dei territorialisti, solo nella Piana di Gioia Tauro ci sono almeno 35 mila appartamenti vuoti. “Sono anni che si spendono milioni do per montare tendopoli per poi abbandonarle a se stesse” si legge in un comunicato diffuso da Sos Rosarno. E conclude “eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa. Quanto tempo bisogna aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?”

Nel ghetto di San Ferdinando, dove l’inferno è realtà.

Il treno si ferma e una voce registrata annuncia la fermata della stazione di arrivo:Welcome to Rosarno. Benvenuti in questo pezzo di profondo Sud immerso nella Piana di Gioia Tauro.

La strada che porta alle tendopoli di Rosarno si lascia alle spalle il centro abitato coi suoi palazzi lasciati a metà e le case coi foratini in bella vista.
Poi il percorso si perde nella campagna calabrese, arsa da mesi di siccità e avvolta in un clima torrido.
In lontananza, il mare.
Non ci sarebbe bisogno neanche della segnaletica in questo caso: le gru del porto e l’inceneritore indicano quanto la direzione sia giusta. Gioia Tauro, in cui il porto e il termovalorizzatore erano stati presentati come un’importante opportunità di impiego e sviluppo per l’intera economia regionale.
Di crescita occupazionale neanche l’ombra, però. Quello che sarebbe dovuto diventare uno dei più grandi terminal commerciali del Mar Mediterraneo, nel corso degli anni ha visto solo stagioni di licenziamenti e inchieste per traffici illeciti. L’impianto per lo smaltimento dei rifiuti, invece, ha bruciato di tutto finendo per inquinare l’ambiente e portando solo il tasso dei tumori a una percentuale elevatissima.

In questo lembo di Calabria, dove ogni problema molte volte non viene nemmeno preso in considerazione o è risolto mediante “piani di sicurezza”, c’è anche un enorme spiazzo di terra battuta.
Una sorta di linea di confine fra il campo container e la tendopoli di San Ferdinando.

La rivolta di Rosarno. Sono ormai passati sette da anni da quando i migranti escono allo scoperto dai luoghi in cui trovano riparo al ritorno dai campi; casolari abbandonati e capannoni industriali- la Rognetta e la Cartiera- ormai dismessi. Circa 2000 persone fino a quel momento considerate invisibili, a Rosarno,  si uniscono in corteo e la rabbia esplode come il colpo di arma ad aria compressa che la sera prima aveva ferito un paio di braccianti.
I migranti si ribellano ai soprusi delle Ndrine e del caporalato.
Loro non sono più disposti a subire spregevoli angherie e alzano la testa davanti alla ‘Ndrangheta, che dopo aver succhiato e stuprato la Calabria fino alle viscere, ha deciso di continuare il proprio banchetto anche sulla pelle dei migranti.
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno, definisce quell’episodio come “atto rivoluzionario” e in un’intervista sarà lui stesso a spiegare come la “rivolta” dei rosarnesi, scoppiata nelle due giornate succeessive alla protesta dei braccianti, fosse stata strumentalizzata da chi avrebbe preferito continuare a calpestare la dignità di stranieri e italiani.

 

La vita nel ghetto. Alla richiesta di condizioni lavorative e abitative dignitose lo Stato, quindi, risponde investendo milioni di euro per attrezzare un campo con una cinquantina di tende da otto posti letto ciascuna e dieci docce.
Uno spazio che avrebbe dovuto ospitare circa 400 persone.
Come spesso accade, però, ai “piani alti” la distrazione stranamente casuale fa parte del modus operandi e nella tendopoli, durante la stagione della raccolta delle arance, ci sono almeno 3000 persone.
Nel corso di quasi dieci anni, l’area della tendopoli si è ingradita.


Baracche costruite alla meno peggio con pali in legno, teloni cellophanati, lamiere in amianto, compensato, materiale plastificato hanno preso la forma di una casa per uomini e donne che si fermano al crocevia di Rosarno.


Fa caldissimo. Buona parte del campo è andata in cenere agli inizi di luglio, quando un incendio doloso ha polverizzato le baracche.

L’odore acre proveniente dal materiale plastico incendiato si unisce alla puzza proveniente da centinaia di sacchi della spazzatura ammassati lungo tutto il perimetro del ghetto.
L’aria è irrespirabile. Ci sono 40° e l’afa ha reso l’atmosfera una cappa a cielo aperto.

 

In questo inferno manca l’acqua, e l’energia elettrica si ottiene con un paio di generatori.
Le condizioni igienico sanitarie sono pessime. Quando alcuni attivisti del collettivo Mamadou di Bolzano visitano gratuitamente i ragazzi presenti nel campo, capiscono subito come i problemi gastro intestinali siano associati a una scarsa alimentazione e idratazione, e al consumo di acqua non potabile.

Nonostante le difficoltà, questo posto si è trasformato in una sorta di città nella città, con bazar e sala tv.
Alcuni dei ragazzi presenti salutano e chiacchierano fra di loro seduti su una trave di legno all’ombra di teli plastificati. Qualcuno passeggia, altri cucinano quel poco di cibo acquistato pagandolo il doppio.

Il gioco dell’oca.
Per contrastare lo sfruttamento lavorativo e permettere una migliore integrazione dei migranti, la Prefettura di Reggio Calabria ha proposto la solita ricetta risolutiva.
Come da tradizione, dunque, a breve ci sarà lo sgombero del ghetto e la realizzazione di una nuova tendopoli.
Ovviamente, sempre nelle campagne in cui i migranti lavorano dalle 7 del mattino alle 5 del pomeriggio senza neanche potersi lamentare. Lontani dai borghi calabresi e dalla vita quotidiana che dovrebbero poter vivere anche loro.
Invece no. Si torna al punto di partenza: l’emergenza.Hai sbagliato casella. Resta fermo per tre turni.
Insomma, quelle scene di semi- normalità viste all’interno del campo continuano a restare solo delle “prove”.
Assurdo e inaccettabile da parte nostra assistere all’ennesima speculazione; coraggioso da parte loro vedere la forza d’animo di chi, nonostante l’emarginazione e i maltrattamenti, riesce ancora a sorridere sperando in un domani migliore.

Issa: dal Niger al ghetto passando per Bergamo e sognando la felicità

 

Entrata della tendopoli

Nel ghetto di San Ferdinando, a metà strada fa Gioia Tauro e Rosarno, è un giovedì mattina afoso di fine luglio. Fa caldo: la colonnina di mercurio tocca i 40° gradi e il sole picchia sulle nostre teste e su quelle dei migranti, riscaldando i tendoni firmati “Ministero dell’interno” e le baracche costruite alla meno peggio con pali in legno e coperte da teloni plastificati per evitare che filtri l’acqua piovana.

In uno di questi “alloggi”, usato come retrobottega del bazar aperto nel ghetto,  il Collettivo Mamadou di Bolzano (che dopo aver svolto attività di monitoraggio sulle condizioni sanitarie e di vita nel campo per ben due anni,  attraverso una campagna di crowfounding ha acquistato una struttura che sarà montata a inizio autunno e fungerà da ambulatorio, punto legale e scuola di italiano), dopo aver ottenuto un container adibito a studio medico, organizza il corso di alfabetizzazione per i migranti.

Quel mattino siamo in leggero ritardo e un ragazzo, in modo simpatico, ci segnala la mancanta puntualità. Sorride e gli diamo ragione. A lezione è attento, sveglio, ha voglia di imparare e per noi diventa “Issa il Bergamasco”, perchè quando domandiamo da dove venga non esita un minuto a rispondere “Bergamo”, mentre i compagni di classe ridono. Per un attimo è stato come tornare alle scuole superiori, quando ti affannavi a inventare una scusa per non essere interrogata ma oltrepassavi i limiti della credibilità.
A fine lezione mi fermo un po’ a chiacchierare con lui arrivato dal Niger sei anni fa, a maggio 2011.

All’età di sette anni suo padre lo porta a vivere con sè in Ghana affinchè studiasse bene l’inglese e potesse trovare un buon lavoro una volta concluso il suo percorso scolastico. Gli anni scorrono veloci  ma qualcosa va storto e Issa, rimasto orfano, torna in Niger e per un anno vive con la madre. Ma casa sua gli sta stretta. Capisce presto come il Niger non possa offrigli alcuna garanzia lavorativa ed esprime alla madre la voglia di viaggiare e andare via. La donna raccomanda il figlio a un pastore libico che gli offre vitto, alloggio e una paga.

Il ragazzo si trasferisce in Libia e si occupa del bestiame per almeno un anno, finchè non percepisce più lo stipendio. Un mese, due, tre. Dopo sei mesi Issa chiede il salario senza ottenere nulla. e decide di darsi da fare altrove. Comincia a fare il muratore insieme a un amico egiziano. Diventa molto bravo e nel giro di tre anni lavora in proprio.  Tutto procede secondo il verso giusto fino al 17 febbraio del 2011, giorno della morte di Gheddafi. Scoppia la prima guerra civile e Issa, a pochi giorno dall’esplosione della guerriglia, capirà quanto quel posto non sia più tanto sicuro. Un pomeriggio è in casa insieme alle altre alle altre quattro persone con cui divide l’appartamento in cui cui degli uomini armati fanno irruzione all’improvviso.
Non c’è tempo di comprende cosa stia succendendo.

Gli eventi si susseguono in pochi minuti. “Sei contento che sia morto Gheddafi?”, chiedono a uno dei presenti. Issa ricorda solo le armi. Non capisce la risposta. Tutto si consuma in un batter d’occhio: il sangue, i colpi di mitragliatrice, l’istinto che lo porta a saltare giù dalla finestra.
Corre, Issa. Corre, cade, si rialza. Qualcuno gli urla dietro qualcosa. Corre, cade, si rialza. I proiettili sfiorano il suo corpo.
Corre, cade. Resta a terra con la testa insanguinata e il ginocchio sinistro perforato da un colpo sparato da quegli uomini armati. Probabilmente pensano di averlo ucciso ma lui respira ancora.

Rimane in coma per due mesi e al suo risveglio scopre di essere stato salvato da due abitanti del luogo. In ospedale è interrogato da alcuni miitari libici, interessati a sapere perchè fosse in Libia e dove volesse andare. Il ragazzo chiede di poter tornare in Niger per riabbracciare la mamma ma è impossibile attraversare il territorio libico e varcare i confini. Viene trasferito in una città costiera e viene ospitato per circa dieci giorni in una struttura adiacente il porto.

Una fila di baracche nel ghetto

 

Destinazione Italia. 1.200 persone stipate a bordo di una nave a tre piani attraversano il Mar Mediterraneo e raggiungono le coste di Lampedusa. Poco più che ventenne, Issa si ritrova in un Paese lontano migliaia di chilometri dai suoi cari. Solo e pieno di dolori post- convalescenza. E’ trasferito a Bergamo, nuova residenza italiana per almeno un anno. Ospite di uno sprar, lavora alla realizzazione di un evento culturale di cui dice di non ricordare il nome. Terminato il periodo di proroga sull’ospitalità al centro,  va a vivere da un suo amico. Le vertigini sono passate e la ferita alla testa si è rimarginata e così Issa torna a impastare calce e cemento nella bergamasca, per poi lasciare lo Stivale alla volta della Germania.
Passa due anni vendendo i giornali porta a porta, torna a Bergamo a rinnovare i documenti e risale nuovamente in Germania.  Adesso Issa ha 30 anni e dal 2016  vive fra Napoli e Rosarno.

In Calabria ha raccolto le arance sotto lo schiaffo del caporale per 700, 800 euro al mese, lavorando dalle 7 del mattino alle 16.30 del pomeriggio. Dall’alba al tramonto nei fitti agrumeti calabresi, non riuscendo neanche a vedere la luce del sole. Si sopravvive fra la stagione degli agrumi, il razzismo e i luoghi comuni sui migranti e l’inospitale ghetto.
Nella tendopoli la vita non è facile. La pioggia caduta la notte prima ha ravvivato l’odore acre della cenere lasciata dal rogo appiccato all’altra metà del campo all’inizio del mese di Luglio.  La puzza dei teloni plastica sciolta dalle fiamme è forte, mentre i rifiuti abbandonati lungo tutto il perimetro della tendopoli formano una specie di banchina. Le condizioni igienico sanitarie del campo sono pessime. Dormire è impossibile.

Il ghetto di San Ferdinando è un luogo infernale. Creato grazie a miliardi di euro e dalla geniale idea di istituzioni capaci di affrontare questioni sociali e umanitarie come un’emergenza, oggi è una pozzanghera a cielo aperto durante i temporali e nulla, lì dentro, è riconducibile nemmeno a una prima e misera accoglienza.
A Rosarno muore l’umanità, così come svanisce ogni sentimento di pietà umana tutte le volte in cui i problemi presenti in Italia, ma soprattutto in Calabria, vengono addebitati ai migranti invece sfruttati e calpestati nella loro dignità.

Quando chiedo a Issa dove gli piacerebbe andare e cosa si aspetta dal futuro, mi risponde: “Voglio tornare a Bergamo. Qua non c’è lavoro.” Poi mi guarda, sorride e aggiunge: ” Vorrei un po’ di felicità e una vita migliore”.
Si possono mai alzare muri e recinti alla speranza? Io penso proprio di no. 

Gambarie, Aspromonte. In un hotel (non) a 5 stelle

Ormai è un mantra. Dai programmi spazzatura e pro- xenofobia (come le vetrine di Del Debbio e Belpietro mandate in onda su Rete4) alle perle di Salvini e Meloni, il ritornello è sempre lo stesso: “Gli italiani al freddo e al gelo, senza lavoro, e gli immigrati negli hotel”.
Cavallo di battaglia della Lega Nord e del resto dello scenario “politico” italiano che troppo si colloca in uno spazio temporale non ancora superato, il solito slogan viene tirato fuori a mo’ di “soluzione” alle troppe domande lasciate aperte dalle problematiche economiche e sociali di casa nostra.

Basta uscire dal circuito populista e leggere qualche rapporto presentato da Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, LasciateCientrare e per aprire gli occhi su un “sistema accoglienza” distante anni luce da quello perennemente presentato da una politica concentrata a rimarcare un “noi” e un “loro”.
Noi e loro. Noi meritevoli di qualunque diritto; loro da ricacciare nei Paesi dilaniati da disastri ambientali e climatici, guerre, carestie e una sciagura umanitaria perpetrata da anni proprio dall’Occidente- fortezza.
Noi e loro. Un binomio simile a un’alta muraglia in cemento armato alzata per separare gli uni e le altre, impedendoci di vedere oltre luoghi comuni e leggende metropolitane.

Di caviale e champagne, personal trainer e idromassaggio a Gambarie, frazione di Santo Stefano D’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, non c’è manco l’ombra.
Dopo essersi lasciati alle spalle Villa San Giovanni e la Sicilia, che viste da quassù appaiono nella loro bellezza maestosa, la visione del bel panorama finisce quasi subito. Un gruppo di case appeso a 1400 metri d’altezza sul livello del mare e 114 abitanti. La bottega in piazza vende i prodotti tipici calabresi. Ed è tutto qua: i piccoli negozi, una fontana. A destra una delle piste sciistiche e un albergo. A sinistra l’Hotel Excelsior, ribattezzato dalla cronaca locale come “l’hotel degli orrori”.
Descritto da varie “testate giornalistiche” come il luogo della rivolta dei migranti intestarditi a chiedere cibo di alta qualità e dalle mille pretese, la visita al Cas (Centro Accoglienza Straordinaria) in cui ho affiancato il Cosmi di Reggio Calabria e Lasciatecientrare nello scorso febbraio, non ha mostrato affatto un posto ospitale. A partire dai gestori della struttura, infastiditi dalla nostra presenza.
Tra la fine del 2016 e l’inizio dell’anno corrente, i cento migranti circa ospitati all’interno della struttura hanno occupato un’ala dell’albergo chiedendo che fossero rispettati i loro diritti fondamentali. Cibo, vestiti, cure mediche. Nel giro di poco tempo, ci sono state venti revoche ai cosiddetti “facinorosi”.
Fra loro era presente anche un ragazzo proveniente dal Camerun e morto solo qualche giorno fa in un letto d’ospedale a Reggio Calabria a nemmeno 30 anni. Richard, questo era il suo nome, si è ammalato di tumore al fegato e aveva bisogno di cure farmacologiche e visite di controllo a cui doversi sottoporre proprio nel capoluogo siciliano. Molte volte il suo diritto alla salute veniva calpestato, e per tale ragione aveva protestato insieme agli altri ospiti anche nel mese di gennaio 2017. Come gli altri, Richard era poi stato trasferito altrove.

I migranti, come si apprende in una nota scritta da LasciateCientrare e Cosmi, descrivono un quadro drammatico:

 “Medicinali non somministrati a chi ne avrebbe bisogno, spesso come forma umiliante e crudele di punizione per aver protestato per qualche motivo o, peggio ancora, per aver denunciato all’esterno alcune mancanze nella gestione dell’accoglienza così come realizzata dal personale dell’albergo. O ancora, i termosifoni lasciati spenti fino a qualche giorno fa, con ragazzi che lamentano dolori al petto dovuti a un freddo lancinante che avrebbe loro impedito di dormire, specie nelle notti di gelo che la Calabria ha conosciuto poche settimane fa. L’acqua corrente non sarebbe quasi mai calda, e molti ragazzi hanno raccontato di non potersi lavare da giorni. La notte, inoltre, i ragazzi verrebbero chiusi a chiave nella struttura, e qualcuno, non potendovi rientrare, ha dovuto dormire all’aperto nel mese di dicembre.” Rapporto LasciateCientrare

Concordo su quanto riportato dagli attivisti delle due reti: perchè dubitare delle testimonianze di questi giovani abbandonati ad alta quota, in mezzo alla neve e lontani da qualunque tipo di socialità? Reggio Calabria dista 30 chilometri e i collegamenti, a quanto pare e come ben sappiamo, non sono dei migliori.
Si legge sempre nella stessa nota:

Ma è il clima generale della struttura, incentrato su una forsennata caccia alle streghe – alias i migranti che denunciano o criticano le pessime condizioni della gestione del centro – a preoccuparci e a imporci di vigilare in maniera continua sullo stato effettivo dell’accoglienza nel nostro territorio, a Gambarie non solo. Troviamo inaccettabile che i responsabili di una struttura deputata all’accoglienza dei migranti, e che per questo motivo riceve finanziamenti pubblici importanti, governi la situazione col terrore, dato che molti ragazzi anche in occasione della nostra visita avevano paura di essere visti o addirittura fotografati nel momento in cui parlavano con noi. Ancora più incredibile è che da più un mese non siano stati affidati ufficialmente ad una cooperativa (che subentri alla vecchia, attiva a Gambarie fino al 31 dicembre scorso) servizi essenziali quali ad esempio l’assistenza legale e sanitaria, le attività educative, la mediazione culturale.

Dov’è il reale senso di accoglienza se sulla pelle dei migranti continua a esserci un grosso business? E’ doveroso ricordare quanto i 35 euro tanto decantati a guadagno dei migranti stessi (peccato come nella maggior parte dei casi non abbiano manco un centesimo in tasca), finiscano direttamente nelle casse di alberghi ed enti vari.
Scriveva Bauman nel suo saggio “Vite di scarto”: <<I ghetti, con o senza nome, sono istituzioni antiche. Sono serviti alla «stratificazione composita» (e anche, in un sol colpo, alla «deprivazione multipla»), sovrapponendo differenziazione sovrapposta per casta o per classe e separazione ter-ritoriale. I ghetti possono essere volontari o involontari (benché soltanto questi ultimi tendano a recare su di sé il marchio infamante del nome), e la principale differenza fra i due tipi è da quale parte del «confine asimmetrico» siano rivolti, cioè verso gli ostacoli ammonticchiati all’ingresso o all’uscita del territorio del ghetto.>>

Come possiamo parlare di una società multiculturale armoniosa, se chi arriva in Italia si sentirà sempre escluso e chiuso in quella bolla etichettata, appunto, come “loro” e rinchiuso in contrade, piccoli paesi, borghi semi abbandonati senza poter interagire con altre persone?
Eppure sarebbe semplice abbattere certe barriere e tendere una mano troppe volte trattenuta per un’assurda paura del “diverso”. Basterebbe arrampicarsi sulle reti di protezione e allungare il collo per comprendere quanto le suite extra lusso e i centri benessere di cui godrebbero “gli invasori” siano una marea di frottole montate ad hoc per raccattare voti e distrarci da altre preoccupazioni ben più reali. E urgenti, soprattutto.