Issa: dal Niger al ghetto passando per Bergamo e sognando la felicità

 

Entrata della tendopoli

Nel ghetto di San Ferdinando, a metà strada fa Gioia Tauro e Rosarno, è un giovedì mattina afoso di fine luglio. Fa caldo: la colonnina di mercurio tocca i 40° gradi e il sole picchia sulle nostre teste e su quelle dei migranti, riscaldando i tendoni firmati “Ministero dell’interno” e le baracche costruite alla meno peggio con pali in legno e coperte da teloni plastificati per evitare che filtri l’acqua piovana.

In uno di questi “alloggi”, usato come retrobottega del bazar aperto nel ghetto,  il Collettivo Mamadou di Bolzano (che dopo aver svolto attività di monitoraggio sulle condizioni sanitarie e di vita nel campo per ben due anni,  attraverso una campagna di crowfounding ha acquistato una struttura che sarà montata a inizio autunno e fungerà da ambulatorio, punto legale e scuola di italiano), dopo aver ottenuto un container adibito a studio medico, organizza il corso di alfabetizzazione per i migranti.

Quel mattino siamo in leggero ritardo e un ragazzo, in modo simpatico, ci segnala la mancanta puntualità. Sorride e gli diamo ragione. A lezione è attento, sveglio, ha voglia di imparare e per noi diventa “Issa il Bergamasco”, perchè quando domandiamo da dove venga non esita un minuto a rispondere “Bergamo”, mentre i compagni di classe ridono. Per un attimo è stato come tornare alle scuole superiori, quando ti affannavi a inventare una scusa per non essere interrogata ma oltrepassavi i limiti della credibilità.
A fine lezione mi fermo un po’ a chiacchierare con lui arrivato dal Niger sei anni fa, a maggio 2011.

All’età di sette anni suo padre lo porta a vivere con sè in Ghana affinchè studiasse bene l’inglese e potesse trovare un buon lavoro una volta concluso il suo percorso scolastico. Gli anni scorrono veloci  ma qualcosa va storto e Issa, rimasto orfano, torna in Niger e per un anno vive con la madre. Ma casa sua gli sta stretta. Capisce presto come il Niger non possa offrigli alcuna garanzia lavorativa ed esprime alla madre la voglia di viaggiare e andare via. La donna raccomanda il figlio a un pastore libico che gli offre vitto, alloggio e una paga.

Il ragazzo si trasferisce in Libia e si occupa del bestiame per almeno un anno, finchè non percepisce più lo stipendio. Un mese, due, tre. Dopo sei mesi Issa chiede il salario senza ottenere nulla. e decide di darsi da fare altrove. Comincia a fare il muratore insieme a un amico egiziano. Diventa molto bravo e nel giro di tre anni lavora in proprio.  Tutto procede secondo il verso giusto fino al 17 febbraio del 2011, giorno della morte di Gheddafi. Scoppia la prima guerra civile e Issa, a pochi giorno dall’esplosione della guerriglia, capirà quanto quel posto non sia più tanto sicuro. Un pomeriggio è in casa insieme alle altre alle altre quattro persone con cui divide l’appartamento in cui cui degli uomini armati fanno irruzione all’improvviso.
Non c’è tempo di comprende cosa stia succendendo.

Gli eventi si susseguono in pochi minuti. “Sei contento che sia morto Gheddafi?”, chiedono a uno dei presenti. Issa ricorda solo le armi. Non capisce la risposta. Tutto si consuma in un batter d’occhio: il sangue, i colpi di mitragliatrice, l’istinto che lo porta a saltare giù dalla finestra.
Corre, Issa. Corre, cade, si rialza. Qualcuno gli urla dietro qualcosa. Corre, cade, si rialza. I proiettili sfiorano il suo corpo.
Corre, cade. Resta a terra con la testa insanguinata e il ginocchio sinistro perforato da un colpo sparato da quegli uomini armati. Probabilmente pensano di averlo ucciso ma lui respira ancora.

Rimane in coma per due mesi e al suo risveglio scopre di essere stato salvato da due abitanti del luogo. In ospedale è interrogato da alcuni miitari libici, interessati a sapere perchè fosse in Libia e dove volesse andare. Il ragazzo chiede di poter tornare in Niger per riabbracciare la mamma ma è impossibile attraversare il territorio libico e varcare i confini. Viene trasferito in una città costiera e viene ospitato per circa dieci giorni in una struttura adiacente il porto.

Una fila di baracche nel ghetto

 

Destinazione Italia. 1.200 persone stipate a bordo di una nave a tre piani attraversano il Mar Mediterraneo e raggiungono le coste di Lampedusa. Poco più che ventenne, Issa si ritrova in un Paese lontano migliaia di chilometri dai suoi cari. Solo e pieno di dolori post- convalescenza. E’ trasferito a Bergamo, nuova residenza italiana per almeno un anno. Ospite di uno sprar, lavora alla realizzazione di un evento culturale di cui dice di non ricordare il nome. Terminato il periodo di proroga sull’ospitalità al centro,  va a vivere da un suo amico. Le vertigini sono passate e la ferita alla testa si è rimarginata e così Issa torna a impastare calce e cemento nella bergamasca, per poi lasciare lo Stivale alla volta della Germania.
Passa due anni vendendo i giornali porta a porta, torna a Bergamo a rinnovare i documenti e risale nuovamente in Germania.  Adesso Issa ha 30 anni e dal 2016  vive fra Napoli e Rosarno.

In Calabria ha raccolto le arance sotto lo schiaffo del caporale per 700, 800 euro al mese, lavorando dalle 7 del mattino alle 16.30 del pomeriggio. Dall’alba al tramonto nei fitti agrumeti calabresi, non riuscendo neanche a vedere la luce del sole. Si sopravvive fra la stagione degli agrumi, il razzismo e i luoghi comuni sui migranti e l’inospitale ghetto.
Nella tendopoli la vita non è facile. La pioggia caduta la notte prima ha ravvivato l’odore acre della cenere lasciata dal rogo appiccato all’altra metà del campo all’inizio del mese di Luglio.  La puzza dei teloni plastica sciolta dalle fiamme è forte, mentre i rifiuti abbandonati lungo tutto il perimetro della tendopoli formano una specie di banchina. Le condizioni igienico sanitarie del campo sono pessime. Dormire è impossibile.

Il ghetto di San Ferdinando è un luogo infernale. Creato grazie a miliardi di euro e dalla geniale idea di istituzioni capaci di affrontare questioni sociali e umanitarie come un’emergenza, oggi è una pozzanghera a cielo aperto durante i temporali e nulla, lì dentro, è riconducibile nemmeno a una prima e misera accoglienza.
A Rosarno muore l’umanità, così come svanisce ogni sentimento di pietà umana tutte le volte in cui i problemi presenti in Italia, ma soprattutto in Calabria, vengono addebitati ai migranti invece sfruttati e calpestati nella loro dignità.

Quando chiedo a Issa dove gli piacerebbe andare e cosa si aspetta dal futuro, mi risponde: “Voglio tornare a Bergamo. Qua non c’è lavoro.” Poi mi guarda, sorride e aggiunge: ” Vorrei un po’ di felicità e una vita migliore”.
Si possono mai alzare muri e recinti alla speranza? Io penso proprio di no.